Pasquale Bonavota guida l’elenco dei latitanti più pericolosi. Boss già a 16 anni dopo una faida: «Chi resta deve sparare»

(GIUSEPPE LEGATO – lastampa.it) – Dopo l’arresto di Matteo Messina Denaro, porta in Piemonte – a Moncalieri e Carmagnola – la primula rossa inserita in cima all’elenco dei latitanti di massima pericolosità del Ministero. E’ Pasquale Bonavota, originario di Sant’Onofrio, provincia di Vibo Valentia i cui interessi economici e mafiosi tracciano un asse Calabria-Piemonte-Roma.
La sua è una parabola anomala dal punto di vista giudiziario perché – per la cronaca va detto – è ricercato – ovunque ma senza una condanna definitiva sul casellario giudiziale. Le sentenze che ne avevano dichiarato la colpevolezza su due omicidi sono state annullate dalla Cassazione. Lo cerca la Dda di Catanzaro perché lì è destinatario di un mandato di cattura nella maxi-inchiesta del procuratore Nicola Gratteri e dei sostituti Antonio De Bernardo, Anna Maria Frustaci e Andrea mancuso. Un personaggio centrale nelle dinamiche criminali italiane.
Di lui hanno parlato diversi pentiti, ma la genesi è quella di un boss bambino. Che già a 16 anni deve fare i conti con le conseguenze di una pesante faida nel paese d’origine. Bonavota contro Petrolo. Morti, sangue, anche di gente che non c’entra niente uccisa in una piazza pubblica durante il giorno dell’Epifania. Una strage. «Allora, quando hanno sparato a mio zio Saro, che dall’ospedale di Vibo Valentia lo portavano a Reggio, io e mio padre avevamo la pistola addosso. E all’ospedale chi c…o c’era?! Solo io, sedici anni, e mio padre» dirà in un’intercettazione. Ancora: «Le donne si rifugino in Francia, chi resta qui deve sapere che dovrà sparare dappertutto».
Cresciuto in fretta si alterna tra Sant’Onofrio, Carmagnola e Moncalieri dove le articolazioni della ‘ndrangheta vibonese la fanno ancora da padroni. Suo fratello Nicola è spesso nella città del Proclama: arruola imprenditori edili collusi, si presenta sotto la piazza del Comune per accompagnarli mentre salutano un ex dipendente del palazzo recentemente arrestato per corruzione in altro procedimento.
La Squadra Mobile di Torino lo rintraccia nella comoda camera di un hotel a ridosso di piazza Bengasi, in via Montebianco già nel 2001. La famiglia Bonavota ha un bar a pochi metri di distanza gestito dalla ‘ndrina dei Serratore. Non un locale qualunque se è vero com’è vero che in un controllo effettuato durante quell’inchiesta – ribattezzata Replay – i poliziotti troveranno personaggi del calibro di Giuseppe Belfiore, fratello dell’assassino del procuratore di Torino Bruno Caccia e altri personaggi di un certo rilievo criminale.
Pasquale Bonavota – la cui ‘ndrina a Carmagnola è stata disarticolata dall’operazione della Dda Carminius – chiede a Raffaele Serratore di Moncalieri «di procurargli un cane – si legge agli atti – a cui tagliare la testa per lanciarla nel cortile di una persona e convincerla a pagare».
Ancestrale nella violenza, ma anche moderno nel pensiero. Un boss a due facce. Che non dimentica le regole fondative delle cosche, ma si evolve guardando al business (nella zona sud di Torino i videopoker): «Mio padre ha detto una parola che allora io non capivo perché ero un ragazzo : se uno vuole fare il malandrino devi avere pure la mentalità, perché il malandrino, non si fa con il fucile, ormai si fa con il cervello, con diplomazia».
E quando le famiglie rivali decidono di raggiungerlo a Moncalieri per uccidere lui e i fratelli, l’agguato va a vuoto. In quel bar, identificato dai killer per ucciderlo, lui non c’è. E’ in fuga, come oggi, da pallottole e manette.
Provare ad andare a suonare a casa sua?
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Questi bisognerebbe radunarli tutti nel Colosseo e lasciarli fare
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