(la Repubblica) – Il biglietto spezza il cuore. Poche righe ed entri nel dramma di un’esistenza appesa, emarginata, spinta all’angolo da chissà quali circostanze. Magari non sta bene, è solo uno sbandato. O un depresso che è rimasto intrappolato in se stesso. Chi passa vicino all’auto si sofferma e pensa questo, che si tratti di un disagiato. Succede, mormorano, la città è piena di sbandati. 

Alcuni escono dal ristorante di pesce intorno piazza Navona: la serata calda li incoraggia a fare due passi distensivi per chiudere sereni il giorno. Tutti buoni motivi per ignorare l’auto con quel cartello sul parabrezza e lasciar stare. «Però aspetta. Quel biglietto è scritto bene – dice una signora al suo accompagnatore – è misurato, gentile».

Eccolo, il biglietto: «Vivo in macchina. Se avete bisogno di fare la spesa io ve la faccio e ve la porto a casa per uno o due euro (quello che potete). Sono anche un amante dei cani e se vi può far piacere porto il vostro amico a quattro zampe a fare i bisogni. E un bel giretto. Naturalmente col sacchetto per raccogliere la cacca. Spero di conoscervi e di esservi utile. Grazie. Giuliano».

Leggi e rileggi, la coppia cede e si avvicina alla Lancia grigia. Dentro Giuliano sta guardando un film sul cellulare, va verso il sonno sul sedile reclinato. Sono le 23 passate. La signora bussa al finestrino. Niente. Riprova. Niente. Prova ancora. Il finestrino si abbassa. «Guardi che non voglio niente. Se le do fastidio mi sposto, ma non attacchi con la carità che a me non serve la compassione di nessuno». 

Una delle storie di ordinaria emarginazione romana comincia così, con quel finestrino a metà. Giuliano resta in auto e risponde composto e paziente alla signora, in piedi vicino al finestrino: «Ero un manager di un’azienda fornitrice di acqua ed energia. Avevo una famiglia e con mia moglie abbiamo due bambini. Poi il terremoto. Sono finito tra gli accusati di un giro di tangenti di cui non ho mai saputo nulla, ho provato a difendermi ma non c’è stato verso. Sono stato licenziato. Anche mia moglie non ci poteva credere. 

Poi sono scivolato in una spirale depressiva e ho perso anche lei. Ora vivo qui, questa macchina è tutto quello che ho. Grazie del suo interessamento, ma non voglio niente» . Giusto il tempo di tornare con una pizza e una birra: la signora si ripresenta con la cena: «Scusi, ma se non ha mangiato accetti», Giuliano scende dall’auto. T- shirt nera consunta e stinta, maglioncino di lana sintetica, jeans scuri, scarpe da ginnastica senza lacci. 

Barba lunga, 50 anni circa. Accetta di parlare. «Ho due lauree, avevo tutto e in un attimo ho perso tutto. Pure mia moglie prima di lasciarmi mi ha accusato di essere stato un padre assente e ha ragione, ma lavoravo dodici ore al giorno e avevo poco tempo per i bambini. Ora sto così. Faccio lavoretti, campo con poco. In auto mi devo spostare sennò i vigili mi fanno la multa. 

Alla Caritas non vado perché mi vergogno. Sento tanta gente in difficoltà. Ma questa crisi è molto più grave di quanto pensiate. Qualcosa da fare capita sempre. Lavoretti semplici da aggiungere a chi mi chiede di fargli la spesa o di far uscire i cani. Mi tengo sempre intorno al centro, raramente mi spingo in periferia. Io chiedo poco, perché mi basta poco per vivere. Per sopravvivere».