(Giuseppe Di Maio) – Il ’68 ha segnato il declino definitivo della civiltà borghese. La rivoluzione sessantottina, maturata in seno al Capitale contro la resistenza degli ultimi vincoli morali ad un mondo completamente mercificato, ha distrutto in primo luogo la famiglia, e ha posto fine all’egemonia di una classe che aveva dominato per tutta l’età moderna. Dopo di essa, con un’aggressione concertata al ceto medio, è evaporata anche la piccola borghesia che ha governato la politica e la società dell’ultimo secolo.

Oggi la classe dominante nella società, nella politica e nell’economia è il “popolo amorale”, che riempie le pagine dei social e le urne di destra e di sinistra con la dittatura delle opinioni. I tratti distintivi di questo popolo sono il “politically correct” di matrice sinistrorsa, e la “libertà di espressione” di stampo destrorso. L’uno e l’altra segnati da grottesca inconsistenza, e manipolati da bande che allevano i più crudi conflitti di interessi. Questo popolo rozzo e scadente, estrema propaggine del quarto stato e senescenza della nostra civiltà, si rivela attraverso l’uso sfacciato di due intramontabili sentimenti: l’ipocrisia e la menzogna.

Una parte della società, per mezzo del politically correct vuole fondare la sostanza della lotta politica e della lotta di classe su un codice di comportamento formale, che oscuri i valori e i meriti reali del singolo nella collettività. Il tradizionale sacrificio, dunque, i proverbiali talenti, e persino la vecchia fortuna, non servono più a generare la disuguaglianza sociale. Con l’applicazione di questo codice gli strati della società dovrebbero essere costruiti su nuove virtù: la mitezza formale, la simpatia, l’aspetto fisico, la resilienza, la predilezione di genere. Quanto questo breve elenco assomiglia a quello delle “soft skills” (abilità innate), a testimonianza della completa mercificazione dell’essere umano? Nel mondo occidentale, ad esempio, tutta la magistratura è saturata da un orientamento giuridico che ricalca appieno questa volontà.

Dall’altra parte, i tipici abusatori delle regole hanno issato la bandiera della libertà d’espressione. Chi li contesta si rende colpevole di opprimere le elementari libertà della vita civile. Così qualunque somaro malfidente può trincerarsi dietro la libertà di opinione, e nascondere l’ignoranza, l’eversione, l’abuso. E chiunque aspiri a conseguire un profitto illecito, invece di usare come un tempo l’inganno o la mera violenza, ora preferisce l’ipocrisia e le accuse all’avversario d’intolleranza alla democrazia. La libertà di stampa col suo seguito di fake news è capofila di questa malafede. Ricordo quando i “Serenissimi” portarono il loro carro armato in piazza San Marco, e si difesero dicendo che avevano “regolarmente” pagato il biglietto del traghetto. E Berlusconi (e ora Salvini), che istigando folle di evasori fiscali deplorava che mai loro avrebbero disturbato un comizio della parte avversa.

Qualche giorno fa mi hanno dato del fascista, al che ho replicato “razzista”. Ma l’altro ha trasecolato: non poteva essere vero. E invece era proprio così. Un pappagallo conservatore, che crede di dominare il confronto dialettico escludendo la controparte con un codice di comportamento, è uno che fa parte di un popolo amorale. Un popolo che ambisce tanto alle fragranze di Provenza, quanto ai rubinetti da bagno e alle piastrelle dorati. Un popolo cialtrone che è salito in cattedra e lo ritrovi nell’economia, nella vita civile e nella politica. Lo stile è evidente, il linguaggio lo stesso, peggio ancora è la traccia che lascia nella legislazione. Chi si oppone ancora a quest’egemonia sono rari brandelli morali, scampoli di piccola borghesia e di altre sopravvivenze interstiziali che agitano ancora i loro miti e i loro ideali di giustizia. Di che cosa è fatto, se non di questi, quel substrato ondivago di cui si avvale l’universo pentastellato?