Fini come Mastroianni in “8 e 1/2”

Nelle tre righe di cui qui sopra Massimo Fini è riuscito a mettere insieme Dio, Baudelaire e naturalmente se stesso. Compagnia che il più grande (in tutti i sensi) voyeur compulsivo di Massimo Fini considera, ci scommetto, appena […]

(di Antonio Padellaro – Il Fatto Quotidiano) – E per quel che riguarda me, che sono un voyeur compulsivo, alla fine mi ha fatto cieco. Penso che abbia ragione Baudelaire: L’unica scusante di Dio è di non esistere”. Massimo Fini: “Cieco”. Marsilio

Nelle tre righe di cui qui sopra Massimo Fini è riuscito a mettere insieme Dio, Baudelaire e naturalmente se stesso. Compagnia che il più grande (in tutti i sensi) voyeur compulsivo di Massimo Fini considera, ci scommetto, appena accettabile. Mi piace immaginare che tutta questa storia della cecità sia una sua geniale invenzione: a) per commuovere i suoi numerosi e adoranti fan. b) per reclutare qualche nuova fidanzata. c) per spillare un buon anticipo all’editore. A questo punto qualcuno dirà che per trattare in questo modo un povero cieco io debba essere per forza una carogna. Al contrario, pur non essendo un oculista mi piace pensare che la cecità di Massimo sia dovuta a una esagerata pressione sulla retina della sua incontenibile mente ma soprattutto del suo adorabile ego. Che ci vede ancora benissimo come quando l’estate in cui fondammo il Fatto mi fece correre trafelato a Talamone per implorare la sua prestigiosa firma e i suoi mirabili pezzi sulle nostre misere pagine (cosa che poi benignamente ci concesse). Basta, mi fermo qui nel mio stupido tentativo di comprimere i sentimenti che mi suscitano queste potenti (e toccanti) 84 pagine fingendo di riderci su. Poiché, giunti a una certa età (so di cosa si parla) la cecità agisce con malvagia doppiezza: non riesci a vedere i contorni del presente ma il passato ti appare quanto mai nitido e struggente. Un cortocircuito temporale che illumina il racconto attraverso un magistrale controllo della parola. Il maledetto glaucoma viene trattato come un invasore che avanza con graduale spietatezza e a cui si cerca di non concedere il sia pur minimo cedimento dell’anima. Finché, a Capri, con accanto la donna che ama, “in una notte d’estate senza luna, c’era uno stellato straordinario. Ma io le stelle le vedevo un po’ sfocate. Capii che non avrei mai più visto un cielo così e che era l’inizio della fine”. Non è il glaucoma bensì la nostalgia il nemico più subdolo e avvolgente. Il susseguirsi delle estati ruggenti ne è la colonna sonora mentre Massimo assapora la vita e poi la divora: il giornalismo, il successo, il fascino del bel ragazzo, la seduzione e le donne, tante donne tutte attraenti. Come Mastroianni nel Guido di “Otto e mezzo” Massimo si aggira e si riconnette, riga dopo riga, con tutte le donne della sua vita, passate, sfiorate, o solo desiderate. Sono i sassi che il mare ha consumato cantati da Gino Paoli in quella stagione della bella età da cui non riusciamo a staccarci, eterni adolescenti in un corpo che non lo è più. Penso che la prossima estate andrò a trovare Massimo sulla spiaggia “con le colline lontane dove batte l’ultimo sole” per discorrere, come ci piace, del suo Toro della mia Rometta, della “Giuve”, del “grande Ruud” che sfondava le reti come nessun’altro. Prima, però, sosterò a osservarlo, non visto, mentre dopo una bella nuotata si siede sulla roccia ancora calda e fuma una sigaretta guardando il mare.

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