Alle urne – I leader disertano l’Antimafia e da Nord a Sud presentano decine di inquisiti e pregiudicati nonostante le promesse sulle “liste pulite”. I nomi arrivati in Commissione sono soltanto 459, meno di uno ogni due Comuni al voto.
(pressreader.com) – di Lorenzo Giarelli – Il Fatto Quotidiano – I nomi arrivati in Commissione sono soltanto 459, meno di uno ogni due Comuni al voto. Per intendersi, già solo i candidati delle otto liste a sostegno di Beppe Sala raggiungono un numero simile.
Ma tant’è: il vaglio preventivo sugli impresentabili promosso da Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia, spaventa i partiti, che quasi dappertutto preferiscono fare a meno del parere – peraltro riservato – dei parlamentari riguardo a eventuali presenze imbarazzanti nelle liste per le prossime Amministrative. E questo nonostante il controllo dell’Antimafia sia piuttosto parziale, riservandosi di segnalare soltanto i candidati condannati per alcuni reati e quelli rinviati a giudizio.
Motivo per cui dal Parlamento ieri è arrivata la bocciatura soltanto per due candidati del centrodestra alle Regionali in Calabria, molto meno di quanto le indiscrezioni sulle liste lasciassero immaginare.
Ma d’altra parte il filtro sorvola su chi è “soltanto” indagato e ovviamente su coloro i quali potrebbero essere “impresentabili” per motivi etici e politici, pur non avendo guai con la giustizia.
Una volta individuati i casi in questione, compito della Commissione è indicarli ai partiti i quali entro domani, termine ultimo per la chiusura delle candidature, possono depennare dalle liste i nomi cerchiati in rosso.
Il tutto rimarrà però per lo più teoria, visto che nella pratica l’esperimento voluto da Morra e da Wanda Ferro (FdI) non ha vinto lo scetticismo dei leader, pur impegnati in promesse sulle “liste pulite”.
A Roma, per esempio, dei quattro candidati sindaci soltanto Virginia Raggi ha chiesto il via libera al Parlamento sui propri aspiranti consiglieri, ricevendo rassicurazioni sull’assenza di impresentabili.
Il forzista Maurizio Gasparri si è invece persino vantato di non aver inviato le liste alla Commissione: “Le ho inviate al prefetto, non a Morra, che riteniamo non dovrebbe neanche ricoprire l’incarico di presidente”.
A Napoli solo FdI (che lì è commissariato) ha spedito i propri nomi, nel silenzio di Catello Maresca e Gaetano Manfredi, mentre a Milano e Torino nessun aspirante sindaco – da Beppe Sala (che fa sapere di essere in contatto con la Prefettura per gestire eventuali guai) a Luca Bernardo, fino a Paolo Damilano e Stefano Lo Russo – si è posto il problema.
Meglio invece è andata in Calabria, dove si voterà per le Regionali: qui il centrodestra e il M5S (non il Pd) hanno chiesto il parere dell’Antimafia, viste anche le recenti inchieste che hanno coinvolto parecchi esponenti di primo piano della politica locale.
I nomi. I casi imbarazzanti.
A dispetto del disinteresse generale, sono parecchi i nomi che avrebbero meritato una riflessione. Le liste saranno ufficiali tra qualche ora, ma le campagne elettorali sono già piene di potenziali candidati indagati, imputati o pregiudicati. Checché ne dica Gasparri, a Roma l’ultimo ingresso in Forza Italia è quello di Marcello De Vito, ex 5 Stelle che ambisce a rientrare in Consiglio comunale con gli azzurri: già arrestato un paio d’anni fa, tutt’oggi è sotto processo per corruzione nell’inchiesta sullo stadio della Roma. Nella Capitale c’è poi la nota vicenda di Giovanni Caudo, ex assessore di Ignazio Marino che sostiene Roberto Gualtieri. Il professore è imputato per abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite nell’inchiesta sulle Torri dell’Eur, il cui progetto di ripristino secondo la Procura di Roma sarebbe “una speculazione” per oltre 20 milioni di euro: “Sono passati sei anni e l’inchiesta è ancora ferma lì – si difende oggi Caudo – Sono tranquillo, prima o poi un giudice farà chiarezza”.
A Milano, invece, la Lega punta su Annarosa Racca, presidente di Federfarma, per un pezzo indicata come possibile sfidante di Beppe Sala, indagata per diffamazione con l’accusa di aver creato falsi account social per screditare un rivale alla guida nazionale dell’associazione. A processo c’è poi Antonio Barbato, ex capo della Polizia municipale milanese stregato da Matteo Salvini: quattro anni fa fu rimosso dall’incarico per alcune intercettazioni – per le quali non fu mai indagato – in cui prospettava uno scambio di favori su un appalto e sul pedinamento di un vigile (circostanza poi non accaduta); oggi è rinviato a giudizio per falso ideologico e frode in pubbliche forniture per una campagna sulla guida sicura avviata nel 2015.
Nella stessa lista c’è pure Giuseppe Maiocchi, gioielliere protagonista delle cronache per un fatto del 2004, quando insieme al figlio sparò a un ladro e divenne il simbolo della battaglia leghista in favore della legittima difesa. Alla fine se la cavò con un mese di condanna per lesioni, mentre il figlio, colpevole di omicidio colposo, fu punito con un anno e sei mesi.
Altri motivi rendono invece inopportuna la candidatura leghista a Torino di Eugenio Bravo, per anni protagonista del sindacato di polizia Siulp. Uno che, durante le prime indagini sul massacro della Scuola Diaz, diceva di voler “scendere in piazza” promuovere “qualsiasi forma di protesta democratica per difendere la professionalità dei poliziotti impegnati al G8”.
Anche a Napoli il rischio di impresentabilità è alto. Il Pd deve decidere che fare con Aniello Esposito e Salvatore Madonna: entrambi hanno patteggiato 6 mesi per aver inserito delle false candidature nelle liste a sostegno di Valeria Valente, candidata sindaca dem nel 2016. A sostegno di Gaetano Manfredi c’è pure Raffaele Del Giudice, ex assessore di Luigi de Magistris indagato per omissione d’atti d’ufficio in uno scandalo sui rifiuti. Andrà con Antonio Bassolino invece Salvatore Guerriero, condannato in primo grado per truffa: da vigile urbano si assentò mentre avrebbe dovuto sorvegliare il boss Di Lauro.
Regionali. Quanti rischi.
Degna di nota è anche la corsa per le Regionali in Calabria. Morra ha individuato due profili nelle liste a sostegno di Occhiuto, due nomi che – a quanto risulta – avrebbero grane giudiziarie per il reato di abuso d’ufficio. Ma la Regione nasconde anche altri candidati ingombranti. A partire da uno degli aspiranti presidenti, l’ex governatore Mario Oliverio, imputato in tre processi: nel primo, su presunte irregolarità sulla costruzione dell’ospedale di Cosenza, è accusato di corruzione, turbativa d’asta, traffico di influenze e abuso d’ufficio; nel secondo, relativo al finanziamento del Festival di Spoleto, risponde di peculato e nel terzo deve giustificare la revoca di una nomina abuso d’ufficio).
A destra spera Claudio Parente, imputato per corruzione e peculato, ma nelle ultime ore Roberto Occhiuto gli avrebbe chiesto un passo indietro. All’ultimo ha rinunciato pure il centrista Sergio Costanzo, imputato per uno scandalo sui gettoni di presenza e su alcune assunzioni fittizie. Chance invece per Raffaele Sainato (FI), appena indagato per scambio elettorale politico-mafioso. Escluso in partenza Luca Morrone (FdI), rinviato a giudizio nell’inchiesta “PassePartout”. Ma potrà consolarsi: la moglie Luciana De Francesco è la favorita per sostituirlo in lista.
E tutto questo con la Severino, che infatti vogliono abrogare. Immaginatevi le prossime liste senza la Severino.
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FRANCESCO ERSPAMER
Prima che la gazzarra mediatica trasformi le comunali di Roma in una palestra di gossip e menzogne (esercizio, del resto, gradito a buona parte dei romani e degli italiani, che lo praticano quotidianamente su qualsiasi argomento pur di esentarsi dalla fatica della logica, della competenza e della responsabilità), anticipo la mia opinione. Se vivessi a Roma, sulla base della mia esperienza diretta nelle settimane che ci ho passato negli ultimi anni, voterei per Virginia Raggi. Confortato dai pareri discordi di amici e conoscenti; nel senso che quelli che la detestano lo fanno pregiudizialmente (hanno cominciato a parlarne male tre giorni dopo l’inizio del suo mandato) o per motivi per me sbagliati (il sogno di una Roma da bere).
Non voterei però per un diverso candidato del M5S: senza Di Battista, il partito di Conte sta scivolando, forse suo malgrado, verso posizioni liberali e moderate (Di Maio lo ha dichiarato con chiarezza), e io detesto entrambi i concetti — in quanto la libertà e la misuratezza non li considero dei valori in sé bensì due desiderabili effetti, rispettivamente, di un governo che miri al bene comune e di una politica davvero pluralista (un tempo garantita dal proporzionalismo elettorale e amministrativo).
La goccia che, per quel che mi riguarda, ha fatto traboccare il vaso, è stata la retorica del ministro degli esteri pentastellato a favore dei profughi afgani, che Washington vuole spargere per l’Europa in quanto più filoamericani degli americani, un po’ come i profughi cubani in Florida, zoccolo duro di qualsiasi privatizzazione e liberalizzazione e dell’odio per l’idea stessa di socialismo (e di società, a favore dello sdoganamento del più becero individualismo).
Raggi invece la voterei perché è l’unico sindaco romano che nell’ultimo terzo di secolo abbia provato a opporsi ai potentati occulti e non occulti che stanno rovinando la città più bella del mondo; e perché ha avuto il coraggio di resistere a uno dei veri padroni del paese e della sua capitale, l’immarcescibile Malagò (ultimamente gradito anche al “Fatto quotidiano”), bloccando la grande abbuffata delle Olimpiadi da lui patrocinata. (Tranquilli, il prossimo sindaco le farà, per la gioia di un popolo drogato di spettacolo e disinteressato a un futuro più lontano delle prossime vacanze, per non dire del passato).
Peccato che Raggi abbia fatto tanti errori, alcuni difficilmente evitabili (l’hanno sabotata in ogni modo) ma altri dovuti, più che a inesperienza, alla tragica mancanza di un’ideologia di riferimento, peraltro il difetto che ha portato il M5S alla crisi. Perso per perso, per finanziare il risanamento della città malgrado l’ostracismo della regione e del governo, io avrei introdotto tasse locali sulle grandi catene e i megacentri commerciali, sulla distribuzione di pacchi Amazon, su Uber e affini. Tanto per far capire che la globalizzazione, l’arricchimento smodato di pochi miliardari e la svendita dell’economia italiana agli stranieri non sono un destino manifesto ma una scelta, sostenuta da poteri fortissimi, del tutto privi di scrupoli e abituati a vincere, e tuttavia pur sempre una scelta che deve essere condivisa dalla gente, ossia da chi ne pagherà le conseguenze. La forza bruta non ha bisogno di approvazione e chi la subisce è una vittima, a volte innocente; l’egemonia invece si fonda sul consenso e chi la accetta ne è complice e corresponsabile, poco importa se ingannato o manipolato: abbiamo strumenti di controllo, abbiamo tempo; l’ignoranza, la fretta e la superficialità non sono più giustificazioni.
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