Gli idoli virtuali piangono senza freni sui social, e la stampa mainstream interpreta quelle lacrime come indizi di una rivoluzione, come fossero davvero la doratura che ci rimane sulle dita di cui parlava Flaubert […]

(DI DANIELA RANIERI – Il Fatto Quotidiano) – Gli idoli virtuali piangono senza freni sui social, e la stampa mainstream interpreta quelle lacrime come indizi di una rivoluzione, come fossero davvero la doratura che ci rimane sulle dita di cui parlava Flaubert quando metteva in guardia dal toccare gli idoli veri. I sempre più frequenti pianti, gli sfoghi, le ammissioni di fragilità che manager, influencer e “imprenditori digitali” consegnano ai social ispirano editoriali su una presunta mutazione di questa forma terminale del capitalismo: se chi ha costruito un successo planetario sull’apparenza ammette la propria vulnerabilità davanti a milioni di seguaci – è la tesi comune – allora stiamo entrando in una nuova era, in cui il mito della performatività e il culto della perfezione si sbriciolano per far posto alle emozioni, alla profondità e alla fragilità, ciò che rende “le celebrità del web” esseri umani come tutti.
Questa lettura ingenua e sbrigativa è, come quelle lacrime, perfettamente funzionale alla logica del neo-capitalismo. L’influencer proprietaria del marchio ClioMakeUp (10 miliardi di fatturato l’anno, un impero da 100 dipendenti) ha conquistato la stampa offline dopo aver pianto su Instagram raccontando come quello delle influencer sia diventato “un mondo di squali”, tossico e competitivo. Clio, diventata famosa con video-tutorial con cui insegna alle follower a truccarsi, affida a un reel un’agnizione che assurge a emblema di una tendenza, che però non è quella che appare.
Nel neoliberismo digitale gli individui si sottomettono volontariamente alla disciplina della visibilità permanente. Come (quasi) tutti noi, gli influencer producono e mettono in scena sé stessi e la loro vita, ma a differenza nostra non lo fanno gratis. Sponsorizzando prodotti o alberghi (offerti loro da imprese e multinazionali a quello scopo, con l’abbattimento implicito di ogni eventuale critica), recitano la versione abbiente e realizzata di noi stessi. Chiara Ferragni, che incarna il prototipo e ormai lo stereotipo di questo metodo (quanto sia influente lo prova il fatto che Liliana Segre l’abbia invitata a visitare con lei il Memoriale della Shoah), dopo Sanremo riguadagna l’attenzione pubblica con uno sfogo su Instagram, sotto a una foto da 1 milione e 42 mila like che la ritrae in lacrime: “Ho dovuto capire come risolvere problemi più grandi di me con la paura di non farcela come moglie e come mamma”. Aveva già pianto su Instagram per la perdita di due persone care, persone che però non aveva mai visto dal vivo; piangeva nella serie The Ferragnez su Amazon Prime, raccontando i suoi problemi col marito Fedez durante la terapia di coppia; piange Fedez narrando la sua malattia. Tutto può e deve essere monetizzato: merci, appartamenti, malattie, contratti, ecografie, figli. E se c’è di mezzo il denaro, insegna Marx, ogni cosa è soggetta a una dialettica. È il denaro che rende la vita dell’influencer sacra e terribile. L’influencer Olga Buzova, 23,3 milioni di follower su Instagram, ha pianto in un video (“Mi state togliendo la vita”) non a causa della guerra, ma davanti alla prospettiva della chiusura del social in Russia.
Scrive Byung-chul Han in Infocrazia (Einaudi): “Gli influencer sono adorati come modelli esemplari: tutto riceve una dimensione religiosa. Nella veste di guide motivazionali, si atteggiano a salvatori. I follower partecipano alla loro vita come discepoli, comprando i prodotti che gli influencer ingiungono di consumare… prendono parte a una eucaristia digitale. I social media somigliano a una chiesa: il like è il loro Amen”. I follower sono individui separati, privi di qualunque coscienza di classe. Li accomuna solo l’elogio dell’individualità, un altro tipo di conformismo, non caso leitmotiv degli ultimi due Sanremo (l’ultimo dei quali co-condotto da Ferragni): bisogna ostentare le proprie fragilità, non perché esse siano un aspetto ineliminabile dell’umano, ma perché anch’esse servono per “farcela”, come diceva la Chiara adulta alla Chiara bambina nella sua lettera-monologo (buffo: un discorso sull’importanza di ignorare ciò che pensano gli altri di noi, fatto da una persona che ha costruito la sua carriera sul piacere agli altri). Come questa pornografia del sé è reazionaria (Marcuse la chiamava “desublimazione repressiva”), così il dolore è funzionale al successo. Braden Wallake, Ceo di Hypersocial, ha pubblicato su Linkedin un selfie in cui appare in lacrime per aver dovuto licenziare i suoi dipendenti (“Questa sarà la cosa più vulnerabile che avrò mai condiviso”). Nessuna verità che emerge, nessuna riscossa dell’autenticità. Semplicemente, si è scoperto che si possono monetizzare anche le ansie generate dall’essere schiavi della propria immagine. Come si vendono prodotti – e con essi sé stessi – così si vende il prodotto “vulnerabilità”: un altro modo di ottenere like. E, come scrive Byung-chul Han, “il like esclude qualsiasi rivoluzione”.
Daniela sei un mito!
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Ormai tutti piangono in TV. Influencer, opinionisti/e, veline in disarmo, ragazzotti in ascesa, illustri sconosciuti in un attimo di notorietà… Anche per i politici è di moda l’ occhio lucido (per i migranti, di solito, pensionati e disoccupati gli congelano la mascella). E, nonostante l’ irrigedente onnipresente botulino e gli zigomi ormai a piramide, la macchina da presa indugia inevitabilmente su quell’ umidore, patente di bontà.
Mai tante lacrime come ora, mai tanti guai, malattie, lutti, infanzie problematiche, outing più o meno inaspettati, complicati pregressi da cui si cerca di… “uscire”… Insomma, i nostri media, costruiti sui social, sono, come si diceva un tampo nelle litanie mariane, refugium peccatorum di chiunque sia in cerca di un attimo di visibilità, di un disco da sponsorizzare, di un personaggio da (ri)creare, … insomma, di soldi.
E siccome la professionalità e la bravura ormai non pagano più (anzi, sono quasi noiose: chi sa più riconoscerle, e poi basta urlare un po’, con l’ inguine sporgente ed il sedere di fuori, ci si accontenta di poco ai nostri giorni…) si solletica a buonissim o mercato l’ empatia, l’ uovo di colombo di questo nostro secolo. Empatia convenientemente indirizzata, ovviamente: assolutamente bandita in tanti altri casi, molto più… scomodi e molto meno “creativi”…
Quando ero piccola sentivo dire che “il privato è pubblico”. Ancora prima di capire, queste parole mi mettevano a disagio: il privato è privato, se diventa pubblico, non esiste più, pensavo.
Crescendo ho toccato con mano la potenza di questo slogan, ma non il tipo di potenza che immagino i i suoi creatori si proponevano. Anzi, l’ esatto contrario.
Eh, sì, perchè se ci si inumidiscono gli occhi per la velina che fa il giro dei media raccontando il suo tumore o la perdita del figlio, non siamo altrettanto empatici con i guai del nostro antipatico condomino, con la vecchia zia, con quella sciagurata della bella conoscente che fa la bella vita e non ha un filo di cellulite… Stiamo ben attenti a non far frequentare a nostro figlio quel drogato che non è certo un famoso rapper che ci tiene costantemente aggiornati sui suoi veri o presunti mali, e mai e poi mai andremmo ad abitare nel palazzone fatiscente in cui le numerose e disordinate famiglie di “migranti” (le stesse per le quali non lesiniamo lacrime e imponiamo accoglienza) vivono nel caos ed in un diverso tipo di igiene ed abitudini. Oh, a parole faremmo tutto questo, ma nei fatti…
Insomma: il fatto che il privato sia pubblico fa guadagnare tanti, Millantando empatia se si tratta di personaggi a noi lontani, esercitando un capillare controllo sui cittadini da parte di chi, oltre a governarli, desidera anche tenerli sotto controllo , spesso oltre ogni limite “demoicratico”. I fatti nostri glieli raccontiamo direttamente noi, e permettiamo che raccolgano (tanto, chi non fa nulla di male non ha nulla da perdere, no?) anche dati sensibilissimi (DNA, malattie, …) che potrebbero andare in mano di chiunque. E, tranquilli, ci andranno… Insomma, non c’è più nemmeno bisogno della… STASI… basta fare un giretto su Twitter, Istagram, Tikb Tok…
Tutto questo “privato” spalancato in piazza avrà almeno aumentato la solidarietà tra cittadini (intendo quella… privata, non i lasciti a ben già impinguate ONLUS…), l’ aiuto reciproco, l’ amicizia comune? G
Guardandoci intorno e leggendo le cronache, non sembra proprio…
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Leggevo, più o meno interessato, il pezzo della Ranieri quando, a tradimento, è arrivato un nome: MARCUSE. Sono improvvisamente tornato indietro di più di 50 anni, ai tempi dell’Università quando era quasi obbligatorio conoscere le BANALITÀ di questo tipo. Se no, non eri “in”, figo, alla moda. Dopo tanto tempo, rieccolo: un vero ” revenant”, un fantasma. Per carità…
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Forse qualche anno dopo di lei, a Bologna erano di moda Husserl, Lukacs, la logica di Tarsky…
Poi sono arrivati Heidegger, Gadamer e compagnia cantante…
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