
(MASSIMILIANO PANARARI – lastampa.it) – E in Italia finisce sempre tutto in caciara. Come l’alterco tra Fedez e Mario Giordano, con contorno di tifoserie urlanti e prese di posizione di ministri. Ma non si tratta di “aggraziate” baruffe chiozzotte, e la polemica scomposta che si è consumata ieri altro non è che l’ennesima pagina di una tendenza ormai di lunga durata che, nel corso di questi ultimi anni, è andata ad alimentare ulteriormente la spinta allo scontro senza esclusione di colpi e a quella litigation che, dismesse anche le regole di ingaggio minimali, mira direttamente sotto la cintola. Così, la gazzarra viene sussunta stabilmente all’interno del meccanismo della polarizzazione, la quale si sposa in maniera perfetta con la logica mediale dei social network. E proprio mentre i più versati nell’esegesi e nell’iconologia delle foto dei Ferragnez annunciavano il ritorno del sereno nella coppia dopo le burrasche sanremesi in virtù della ricomparsa della fede nuziale al dito di Chiara, il marito si immergeva a piè pari in una sessione di wrestling verbale con il conduttore di Fuori dal coro. Insomma, mai una gioia, neppure quando il voyeurismo dei follower rassicurava il Paese social(e) – nuova sintesi vincente di quello reale e di parti non trascurabili di quello legale – dell’epifania dei segni di un ripristino della quiete familiare dopo la tempesta (su cui, peraltro, aleggiano robusti sospetti di un’operazione di marketing).
Breve riassunto della querelle su Instagram delle scorse ore. Il rapper svela che una giornalista del talk show di Giordano sta tentando di acquisire da loro conoscenti informazioni sul suo “vero” orientamento sessuale. Il conduttore televisivo reagisce negando duramente. Fedez replica facendo ascoltare un audio con la voce della sua collaboratrice. A quel punto Giordano la definisce una «scheggia impazzita», lasciando intendere che il disegno di rimestare nel torbido costituisse una sua iniziativa personale. Il tutto in tripudio di contumelie e sotto una gragnuola di insulti che dai duellanti tracima – ecco uno dei nodi di fondo della questione – verso le rispettive tifoserie social l’una contro l’altra armata. Un vasto campionario di offese di ogni genere che viene qui risparmiato al lettore “per carità di patria” e nel nome della propensione per quella cosa, divenuta nel frattempo tristemente “antica” e old fashioned, che risponde al nome di buona educazione. Finito qui con la lotta nel fango? Ebbene no, perché dopo aver centrato nei giorni passati l’obiettivo della “salvezza” nel campionato regionalpolitico di casa sua, il vicepresidente del Consiglio (e grande frequentatore di media sociali) Matteo Salvini arrivava – con la cavalleria pesante (e in stile cavalleria rusticana) – in soccorso del giornalista amico, trascinando i suoi follower e allungando gli strascichi della singolar tenzone. Per niente cavalleresca, giustappunto, e debordante di una volgarità e di una voglia di menare le mani che è diventata la cifra distintiva di ampi settori del discorso pubblico di questo nostro Paese avvelenato dall’hooliganizzazione da comunicazione istantanea.
Il circuito vizioso in cui siamo sprofondati è presto descritto. La crisi di consenso della politica – “bollinata” in modo inquietante, da ultimo, dall’astensionismo in Lazio e Lombardia – spinge ancor più molti politici alla ricerca di visibilità laddove si ritrova l’opinione pubblica, ovvero le piattaforme e i canali comunicativi. Dove la competizione per l’attenzione (e per bypassare il rumore di fondo) ha già abolito da tempo la nota distinzione di Erving Goffman fra la ribalta e il retroscena, inducendo tutti gli attori – dall’influencer e il vip sino all’utente comune – a salire sul palco comportandosi come fossero nel backstage allo scopo di attirare un pubblico. Senza freni e senza filtri (con l’unica eccezione di quelli di Instagram…), in un’escalation incessante giustificata per giunta nel nome dell’ideologia della trasparenza. E quanto più si è ultrà ed esagitati, tanto più si viene percepiti come “sinceri” e autentici. Screditando, lanciando anatemi, demonizzando i rivali, e correndo a perdifiato sino a rotolare nel baratro di quella che le sociologhe Sara Bentivegna e Rossella Rega hanno chiamato (in un loro libro per Laterza) la «politica dell’inciviltà».
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