17 FEBBRAIO 1992, TRENTUN’ANNI DOPO

(Francesco Tomasicchio – lafionda.org) – Basterebbe ricordare le parole postume pronunciate dall’allora Procuratore capo di Milano, responsabile della maxi inchiesta passata alla storia con il nome di “Mani pulite”, per svolgere delle brevi riflessioni da una prospettiva alternativa rispetto a quella rappresentata dalla narrazione-scontro tra le classiche due fazioni: da una parte, tra moderati e accaniti, i sostenitori oltranzisti delle azioni, qualunque queste fossero, dei pubblici ministeri, dall’altra, invece, i complottisti e i disfattisti. Le note parole furono: «Se fossi un uomo pubblico di qualche Paese asiatico, dove come in Giappone è costume chiedere scusa per i propri sbagli, vi chiederei scusa: scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare in quello attuale». Un pensiero che pare manifestare un sentimento di vera e propria redenzione e che offre, al contempo, la possibilità di andare oltre il binomio già menzionato e considerare ulteriori elementi rispetto ai classici, da trentun’anni a questa parte, trattati.
Che il sistema dei partiti di massa si finanziasse irregolarmente era noto all’intero scenario politico dell’epoca (nessuno escluso) e non solo; che a causa di tale notorietà resta, ancor oggi, un rebus irrisolto il perché l’inchiesta sia incominciata soltanto nel 1992 e non prima. Alcuni ‘maligni’ asseriscono che si sia dovuta attendere la caduta del Muro di Berlino; che altrettanti, oramai, sono noti i dialoghi e i confronti intrattenuti, anche prima dell’inchiesta, tra alcuni diplomatici statunitensi e qualche membro del pool. Fu proprio l’ex ambasciatore statunitense Batholomew a dichiarare lo stretto legame tra gli inquirenti di Milano e il consolato del capoluogo lombardo. Fu, invero, lo stesso console Peter Semler ad affermare di aver ricevuto, nel mese di novembre 1991, direttamente notizia da un pubblico ministero di Milano delle azioni imminenti che la Procura avrebbe, di lì a poco, intrapreso. Ciò che, invece, non era – e non poteva essere – noto, erano le conseguenze che da quel giorno di febbraio ne sarebbero seguite. Su tutte primeggia la «depoliticizzazione» della politica e, di riflesso, dello Stato tout-court.
Si tratta di un vero e proprio processo di stravolgimento del quadro politico e istituzionale che il Belpaese ha vissuto e, attualmente, risulta essere ancora in fieri. Il quale processo ha comportato l’improvvisa e pressocché completa rimozione dell’intera classe dirigente politica dell’epoca, costituita non solo da vecchie e giovani leve, ma anche da alcuni Padri costituenti. Il che ha impedito un effettivo passaggio di consegne tra classi dirigenti formate (perché quelle dell’epoca lo erano) e nuove. Sicché finì, inevitabilmente, l’era della politica e addivenne quella dei tecnici prestati alla politica, giunti in soccorso di essa. Cambiarono i protagonisti e, come naturale che fosse, cambiarono le politiche, su tutti i fronti. Sul versante economico, lo Stato doveva smettere di ‘intromettersi’ nella vita della nuova economia di mercato, cioè doveva ritirarsi e riposizionarsi: da imprenditore doveva, ora, esclusivamente garantire il corretto andamento del mercato concorrenziale. Seguirono, come logiche conseguenze, massicce opere di dismissione del patrimonio industriale pubblico italiano mediante privatizzazioni e liberalizzazioni di interi settori economici. Sul versante monetario, si decise incautamente di accelerare il processo di integrazione europea aderendo ai celeberrimi parametri di Maastricht, confluiti poi nel Trattato che porta il nome della città olandese. Sul versante strettamente politico, la distruzione dei partiti di massa è stata colmata dall’avvento dei partiti dei leaders al comando, finanziati esclusivamente tramite fondi privati e privi di strutture, valori di riferimento e programmi a lungo termine. Questi sono stati sostituiti dagli slogans, dagli hashtags e dalla comunicazione istantanea. Al sistema di libera espressione delle preferenze per designare il proprio e ideale rappresentante nel Parlamento si è sostituito un assurdo meccanismo di liste bloccate preconfezionate dal leader e dai suoi cortigiani di segreteria. Aspetto che ha acuito la distanza tra cittadino-elettore ed eletto, che oggi ha sempre meno le sembianze di rappresentante. Non solo, ma niente più raduni, niente più ‘correnti’ di pensiero, niente più congressi. Dunque, niente più discussioni, ma il leader del momento che pronuncia il verbo e la folla che lo esegue. Il dissenso, anche interno, è visto come peccato. Un semplice apprezzamento verso un esponente opposto come tradimento.
Sul versante istituzionale, invece, è dilagato il populismo più degenerante, cominciato con l’abrogazione delle immunità parlamentari, continuato con l’eliminazione del finanziamento pubblico ai partiti e, da ultimo, culminato con l’approvazione (quasi all’unanimità) della riforma costituzionale concernente il taglio dei parlamentari, massimo emblema del populismo istituzionalizzato. Infine, come se non bastasse, avanza l’ulteriore proposta di revisione costituzionale volta a introdurre, in Italia, un mai del tutto convincente presidenzialismo.
In conclusione, alla luce di quanto esposto, risulta arduo trarre delle considerazioni positive da quel 17 febbraio di trentun’anni or sono. Ma se vi è un aspetto ancor più negativo che si aggiunge agli altri passati in rassegna, questo è la mancanza di una vera, profonda dialettica e di un atteggiamento ‘conformatore’ dei governanti che, dal 1992 in poi, si sono susseguiti. Tutti impegnati esclusivamente a (per)seguire la tutela dei rispettivi centri di interesse, a non ritenere il Parlamento l’epicentro del dibattito e delle scelte politiche, privilegiando altre sedi di potere, prive sovente di legittimazione istituzionale, a limitarsi al recepimento delle direttive esterne allo Stato, a non attuare politiche di spesa pubblica, a non disattendere le stime delle agenzie private di rating, a credere che l’ideologia di mercato sia una scienza esatta piuttosto che una ideologia come tutte le altre. In una parola: «depoliticizzazione».
Per quest’ordine di ragioni risuonano come un’eco inconfondibile le parole – ricordate all’inizio – dell’allora Procuratore milanese: «ne valeva la pena?».
Categorie:Cronaca, Editoriali, Interno, Politica
Scritto da un poro can!
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Si, ne valeva la pena, ricordiamoci anche il debito che certe politiche avevano portato ad ingigantirsi, e poi se una volta ogni secolo anche qualche potente un poco più delinquente degli altri paga qualcosa, BENE.
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Tangentopoli? Sì, ne valeva la pena.
Falcone e Borsellino? Sì, ne valeva la pena.
La Trattativa esposta al mondo? Sì, ne valeva la pena.
La Spazzacorrotti? Sì, ne valeva la pena.
Il reddito di cittadinanza? Sì, ne valeva la pena.
Ribellarsi all’Italia dei Maiali? Sì, ne valeva la pena.
Etc etc etc
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La politica è diventata un spot pubblicitario…e il risultato o prodotto da vendere su un mercato libero.. infatti molti si sono astenuti dal vota…il prodotto non tira!
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Il metodo, ormai invalso da decenni, si è sempre più affermato. L’evoluzione del capitalismo, con tutti gli annessi e connessi, di fronte a una crisi (di qualsiasi genere) reagisce alzando l’asticella delle sue rivendicazioni per uscirne più rafforzato, naturalmente a scapito delle classi sociali medio-basse che si ritrovano più povere da una parte, e con meno controllo democratico (chiamasi democrazia) dall’altra. Due esempi : nel 1981 i partiti rubavano, e per frenarli l’allora ministro Andreatta decise il divorzio del ministero del tesoro dalla Banca l’Italia alla quale venne impedito di acquistare i titoli rimasti invenduti. Se prima il Tesoro decideva il tasso di interesse – tenendolo basso – dei titoli di stato, dopo fu il mercato (cioè le banche) a deciderlo col risultato di un suo aumento e della conseguente crescita vertiginosa debito pubblico. Stessa cosa nel ’92 quando venne deciso la svendita a prezzi di magazzino delle aziende di Stato che tanto avevano fatto per orientare la crescita a partire dal boom economico post-guerra. Insomma, da ogni crisi si esce col ridimensionamento del potere politico nelle decisioni strategiche che invece passano al potere finanziario tramite i suoi uomini designati ai vertici dello Stato (Monti e Draghi in questi anni). Praticamente il capitalismo, man mano che passa il tempo, progressivamente tende ad eliminare quei “lacci e lacciuoli” che ne impediscono lo sviluppo diventando in tal modo iperfinanziario nonché speculativo, ovviamente a danno dell’economia reale.
L’Italia era stata la quinta potenza industriale del pianeta. Ora è quasi la Cenerentola.
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