Ora abbiamo troppi microchip?

Dalla carenza all’eccesso, nell’arco di pochi mesi. Le principali società producono troppi semiconduttori e non riescono a venderli tutti. Ma capiamoci: il mercato è molto articolato e le due cose possono essere vere allo stesso tempo

(GUIDO ALBERTO CASANOVA – wired.it) – Per chi ha seguito le notizie dal mondo della tecnologia, sarà sembrato che negli ultimi anni il mercato dei microchip sia essenzialmente impazzito. Blocco produttivo legato alla pandemia, ricostruzione delle catene di approvvigionamento su base geopolitica, reshoring industriale delle maggiori potenze, e soprattutto carenza globale di microchip a livello globale. Negli ultimi tre anni questi sono alcuni elementi chiave del dibattito pubblico riguardo una delle tecnologie più importanti per la nostra economia.

Recentemente però nel vocabolario del discorso sui semiconduttori è iniziata a comparire anche un’altra parola, che nel settore non si sentiva da un po’. Eccesso, o surplus se volete. Sembra che, nel giro di qualche mese, la situazione si sia ribaltata e che oggi invece siano prodotti addirittura troppi microchip. Che significato ha tutto ciò? Come è successo che da un estremo si sia passati all’altro? E come se ne esce?

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Un fattore politico?

Negli ultimi anni il mercato dei semiconduttori, la componente essenziale con cui vengono prodotti i microchip, ha conosciuto una notevolissima espansione. I ricavi del settore nel 2021 contavano circa 600 miliardi di dollari, ma alcune proiezioni indicano che il settore in questo decennio crescerà a un ritmo del 6-8% annuo fino a raggiungere i 1.000 miliardi di dollari nel 2030.

Davanti all’espansione di questo mercato, i paesi sviluppati non sono rimasti a guardare. CinaStati UnitiEuropaCorea del SudGiapponeTaiwanIndia: tutti hanno messo in atto piani per prendersi una fetta di quel mercato, cercando di attrarre investimenti e di produrre possibilmente in loco i microchip richiesti dalle proprie industrie. Dietro a queste misure (in alcuni casi del valore di decine di miliardi) si cela certamente una ragione economica ma in molti casi la motivazione è prevalentemente politica: i semiconduttori infatti sono considerati da tutti una risorsa tecnologica troppo strategica perché un paese possa esserne dipendente dall’importazione. Molti governi dunque hanno approvato piani per riportare la produzione entro i confini nazionali, in un’ottica sia di sicurezza economica che di sicurezza militare (dati gli usi militari di certi tipi di microchip).

Ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non è qui che nasce l’eccesso di offerta. Certo, molti paesi hanno varato piani industriali enormi per riportare la produzione in casa, ma nella gran parte dei casi si tratta di investimenti recenti che non hanno ancora aumentato la capacità produttiva effettiva visto che gli stabilimenti sono ancora in costruzione.  L’origine dell’eccesso di microchip che stiamo vedendo oggi è invece da ricercare sul lato della domanda

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Un mercato complesso

Intanto, la prima cosa da chiarire è che non c’è un eccesso generalizzato. Ciò che dallo scorso autunno si è cominciato ad osservare è un surplus produttivo rispetto alla domanda in alcuni settori industriali e relativamente ad alcune tipologie tecniche, mentre in altri settori e per altre tipologie il mercato continua a essere sottofornito. Per esempio nel settore automobilistico, che solitamente utilizza microchip la cui tecnologia è già abbastanza matura, si prevede una continuazione dell’attuale carenza di semiconduttori. L’elettrificazione, che aumenterebbe la componentistica di microchip in un’auto da 500 dollari a 1.600, è poi un processo che rischia di esacerbare ulteriormente questa penuria.

L’eccesso di semiconduttori di cui si è iniziato a parlare dallo scorso autunno riguarda invece i chip di memoria, sia quelli Nand che quelli Dram. Il settore non è nuovo alla ciclicità del mercato, fatta di fasi di espansione e contrazione, ma i dati sul crollo in corso sono abbastanza allarmanti per i produttori, che alla fine di questa fase potrebbero aver perso oltre 5 miliardi di dollari secondo alcune stime. 

Sanjay Mehrotra, l’amministratore delegato di Micron, ha detto che “l’industria sta attraversando lo sbilanciamento tra domanda e offerta più grave degli ultimi 13 anni nel [segmento] Dram e Nand”. Ma qualcuno è ancora più radicale nel proprio giudizio. L’ad di Lam Research infatti ha sostenuto di fronte agli azionisti che il mercato dei chip di memoria, il cui valore complessivo si aggira attorno ai 160 miliardi di dollari, “è a dei livelli che non vediamo da 25 anni”. 

All’origine del crollo delle vendite c’è una sostanziale riduzione della richiesta di semiconduttori da parte delle imprese di elettronica, che sono i principali compratori di microchip. Smartphonetablet e computer sono apparecchi elettronici dai quali dipende una gran parte della domanda e tutti e tre i settori hanno subito perdite consistenti l’anno scorso, secondo Gartner: -16% per i personal computer, -12% per i tablet e -11% per gli smartphone. Questo crollo delle vendite si è quindi riversato sui produttori di semiconduttori, che hanno ricevuto sempre meno ordini. A riprova di questo calo, le società che producono macchinari per la fabbricazione di microchip hanno subito perdite che toccano anche il 50%.

Questa depressione della domanda è dovuta a una concomitanza di fattori. In primis come ricordato da Alberto Prina Cerai, analista sui materiali critici, si sta chiudendo il “superciclo dei chip degli ultimi due anni” in cui il cambiamento degli stili di vita obbligato dalla pandemia (come il lavoro da casa o la didattica a distanza) ha notevolmente espanso la domanda di apparecchi digitali e, quindi, anche di microchip. Nel 2022 però, con la caduta delle restrizioni imposte per il contenimento del virus, la domanda è diminuita fortemente provocando così un deficit rispetto all’aumentata capacità produttiva. A questo si aggiungono poi l’incertezza economica creata dalla guerra in Ucraina e gli effetti negativi dell’inflazione sui consumatori, che come osservato durante il periodo natalizio hanno ridotto considerevolmente i propri acquisti di apparecchi elettronici deprimendo ulteriormente la domanda.

Oltre a questi settori poi cala anche la richiesta di semiconduttori per i data center dei giganti digitali statunitensi e cinesi, i cui investimenti sono stati frenati a causa del declino dei proventi. 

L’eccesso di offerta rispetto alla domanda si declina poi in vari modi. Il primo, come appena visto, è il taglio degli ordini da parte dei clienti. Il secondo è l’accumulo di microchip invenduti, che vanno così a ingrossare le scorte di magazzino dei produttori. Tra settembre e dicembre le società che hanno incontrato problemi di vendita sono aumentate vistosamente e i dati sugli stock in magazzino dei maggiori produttori sono cresciuti fin quasi a triplicare rispetto ai dati del 2020: secondo Bloomberg, oggi questi stock equivalgono circa a un intero trimestre o quadrimestre di vendite. Il terzo effetto del calo della domanda infine è il crollo dei prezzi, che è stato visibile in tutti gli rapporti sui ricavi pubblicati dalle società di semiconduttori. Sempre secondo Bloomberg, Samsung Electronics e tutti gli altri produttori in questo momento perdono soldi per ogni microchip che fabbricano.

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Qual è stata la reazione e come se ne esce

La prima reazione dell’industria, che del calo della domanda si era accorta già a fine 2022, è stato quello di tagliare i costi e ridurre la produzione. Secondo TrendForce oggi alcune fabbriche di semiconduttori corrono a un regime ridotto pari a circa il 65-75% delle proprie capacità produttive, in modo tale da seguire più da vicino il calo degli ordini. Il problema fondamentale ovviamente è quello di come smaltire gli stock di magazzino ma per ora le aziende stanno adottando una serie di tagli, alcuni dei quali definiti come “straordinari” da parte degli attori coinvolti. Le società di chip di memoria infatti non stanno solo riducendo le spese e l’utilizzo delle linee di produzione, come fatto dalla giapponese Kioxia, ma hanno anche in programma licenziamenti e il rinvio di investimenti in capitale. Tra queste ci sono anche giganti come la statunitense Micron e la sudcoreana SK Hynix.

Dati gli enormi capitali investiti, per queste società è difficile adattarsi in modo agile alle variazioni della domanda. Ma mentre nel segmento Dram il mercato è saldamente in mano a Samsung, SK Hynix e Micron senza grandi scossoni all’orizzonte, nel segmento Nand la competizione è più agguerrita e l’attuale sbilanciamento della domanda e offerta potrebbe forzare la mano di qualche società. In questa situazione le aziende in questione sono di fronte a un dilemma: ridurre la produzione per mantenersi a galla ma rischiare la propria fetta di mercato, oppure sacrificare i profitti pur di consolidare la propria posizione di mercato? Dalla risposta a questa domanda dipende molto di come si evolveranno gli equilibri tecnologici tra le economie più sviluppate. Per far fronte a questa situazione, alcune aziende stanno cercando una sponda reciproca come ad esempio Kioxia e la statunitense Western Digital che starebbero valutando una fusione. Per molti paesi che dipendono dall’export di tecnologie, Corea del Sud in primis, si tratta di una sfida cruciale che oltre che alle conseguenze economiche ha anche delle implicazioni sul piano della politica internazionale

Come se ne esce quindi? Per ora le previsioni sono poco incoraggianti per tutto il 2023, ma verso la fine dell’anno si dovrebbe intravedere un timido riequilibrio del mercato. Come detto da Prina Cerai, l’industria dei semiconduttori sarà “stimolata dalla penetrazione delle nuove tecnologie” che aumenterà a sua volta la richiesta di microchip. Ma il problema di fondo rimane e finché i consumatori non ritorneranno a comprare prodotti per cui sono necessari i semiconduttori difficilmente il mercato dei chip di memoria potrà riprendersi. Anche perché se la domanda non dovesse tornare a salire, lo sbilanciamento potrebbe diventare ancora più radicale dopo l’inaugurazione della numerosa serie di fabbriche che dovrebbero entrare in funzione quest’anno. “La maggior parte delle nuove capacità produttive annunciate prima o nel corso del 2022 saranno operative nel 2023. Circa 18 negli Stati Uniti, 20 in Cina, 14 nuove fonderie a Taiwan, 12 tra Giappone e Sud-est asiatico, 3 in Corea del Sud e 17 tra Europa e Medio Oriente” ricorda Prina Cerai.

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