La Rete serve a imbrigliare la protesta

Guardando oltre il fenomeno della «cancel culture», si scorge l’insidia dei social media e del Web. Sono spazi in cui far sfogare le masse e svuotare le piazze: qualcuno ogni tanto viene sospeso (e poi riammesso) per illuderlo di essere davvero pericoloso.

(Flavio Cuniberto – laverita.info) – Per abbattere il nemico «in immagine» le vie sono molte: la diffamazione sistematica («character destruction»), il rito voodoo, la cosiddetta cancel culture. È vero che già l’uso della formula inglese è un effetto di quella «cultura della rimozione» che si vorrebbe appunto denunciare: a venire rimossa o neutralizzata, in questo caso, è la lingua (italiana), partendo dal tacito assunto che il fenomeno è anzitutto anglofono e che in inglese si dice meglio. D’altra parte, la cosiddetta cancel culture non fa che rinnovare nel nome e nelle forme quel fenomeno antichissimo che un’altra lingua imperiale, forse più assennata, definiva lapidariamente damnatio memoriae, la cancellazione della memoria nelle sue tracce anche fisiche, materiali.

La Storia è una Tela di Penelope che si tesse e si ritesse cambiando colori e figure. La damnatio memoriae colpiva in genere i «monumenti», o anche solo i nomi dei vecchi regimi politici, esposti appunto alla «condanna collettiva». Se nelle strade e nelle piazze d’Italia ricorrono a migliaia i nomi illustri del Risorgimento, e poi – in tono minore ma con assiduità – i nomi dell’antifascismo militante (da Giacomo Matteotti ai martiri della Resistenza), ci sembra ovvio che nessuna strada, nessuna piazza, sia dedicata a Benito Mussolini o ai gerarchi di regime, «sugli altari» anche monumentali fino a pochi anni prima della catastrofe. Il caso recente di Italo Balbo, nome già illustre e oggi radiato a un velivolo militare, conferma che la vigilanza cancellatrice è sempre attiva.

Le grandi Rivoluzioni passano un colpo di spugna sui simboli del regime abbattuto fino a sostituire lo stesso calendario tradizionale (nel celebre caso francese: Brumaio, Germinale ecc.). L’abbattimento sistematico degli idoli pagani nei primi secoli del cristianesimo fu un caso di cancel culture su scala continentale; e se l’ondata napoleonica farà tabula rasa di conventi e monasteri, adibiti ad altro uso, non sarà molto diverso il clima dell’Italia Unitaria, con nuove chiusure di conventi e monasteri (perlopiù non abbattuti ma «secolarizzati») e il grande rilievo assegnato nella toponomastica ai ministri laicissimi della Nuova Italia, dai Depretis agli Zanardelli e così via. Alla cancellazionerimozione può fare però riscontro la «gogna», l’esposizione al pubblico ludibrio: come nelle mostre naziste sull’Arte Degenerata (ma c’erano anche i roghi di libri) o nei musei sovietici dell’Ateismo. E poiché ai mostri della rimozione corrispondono i mostri del ricordo: l’Enola Gay, la fortezza volante di Hiroshima, è tuttora esposta – tronfia e luccicante – in un museo americano dell’Aviazione.

Conclusione provvisoria. Anziché indignarsi con riflesso pavloviano per le statue abbattute (viene in mente la scena superba della statua di Lenin rimossa e trasportata lungo il Danubio in un vecchio film di Anghelopoulos), converrebbe decifrare con cura i criteri che orientano le nuove purghe, le nuove ondate di rimozione monumentale, o meglio ancora risalire all’ideologia nascosta che le tollera o addirittura le promuove, in vista di scopi del tutto indipendenti dalla furia iconoclasta o dallo zelo del funzionario ipercorretto.

«Ideologia» significa appunto questo: perseguire scopi di parte mascherandoli da pseudo-valori universali (il «gender», la condanna del razzismo in vista di un razzismo più sottile, l’«inclusione» come svuotamento delle differenze). Non è allora fuori luogo parlare di una «ideologia digitale», nel senso preciso di un meraviglioso mondo digitale proposto come valore universale in vista di scopi tutt’altro che universali (gli scopi, semplificando, del Potere nella sua attuale configurazione dominante). E lo scopo primario del Potere è ovviamente quello di schiacciare o «cancellare» il nemico, il «bastone fra le ruote», lo spirito lucido che lo denuncia. Come funziona, sotto questo aspetto, l’ideologia digitale?

La scoperta-base è che il nemico del Potere, lo spirito lucido, può venire neutralizzato in forme più sottili delle vecchie campagne persecutorie. Beninteso, lo «zoccolo duro» dei sovversivi irriducibili, nemici del vaccino o simpatizzanti dell’Orso Russo, richiederà misure brutali, come nei vecchi regimi. È quel resto di violenza materiale a cui nessun Regime può rinunciare. Ma il Nemico è più esteso, il potenziale di protesta è estesissimo, e si scopre allora che il Nemico può essere cancellato fingendo di accoglierlo in una comoda «riserva indiana». I potenziali rivoltosi verranno invitati in accoglienti spazi virtuali, la protesta verrà incanalata nei social, nei blog, e così neutralizzata sul nascere. Per quale ragione se non questa – la comparsa e la crescita a valanga dei social dopo il 2009-2010 – le famose e temute proteste «no global» sono sparite dalla circolazione ? E anche le famose «censure» dei social – l’utente messo in castigo per aver «violato le norme della community» -, non devono trarre in inganno. Le sbarre dei social sono le sbarre di un gioco, di un Monopoli dove la pedina ferma per due giri può riprendere poi la sua corsa, instillando però nel giocatore bloccato la sensazione di essere realmente pericoloso, di aver subito una carcerazione reale (benché di breve durata), col risultato di conferire al grande gioco di Facebook (è l’esempio classico) un’apparenza di serietà e di realtà che ne accresce il potere illusionistico. Il Black Block ridotto a «leone da tastiera» intona il suo ruggito di guerra nello spazio virtuale, l’orda si virtualizza e si neutralizza da sola. Come spiegare altrimenti il fatto sconcertante che due anni di manipolazione mentale collettiva e di misure discriminatorie non hanno prodotto, tra 60 milioni di abitanti, un solo episodio di violenza anche solo simbolica contro le «istituzioni» ? (Al contrario, vediamo folle raccolte in raduni di preghiera, tra rosari cristiani e buddhisti, mentre la violenza anti-istituzionale si è convertita in pratiche autolesionistiche, ascetiche, come i digiuni).

I social network, e forse più in generale la Rete, sono il più formidabile strumento di rimozione – di cancel culture – che sia mai stato inventato. Non c’è modo migliore per rimuovere, neutralizzare, e alla fine abbattere un «monumento» scomodo (o i suoi equivalenti, le tracce della memoria) che «promuoverlo» nella forma esangue, spettrale, estetizzata dell’immagine elettronica (la tv alternativa, il filmato su youtube, il blog radicale: tutte varianti dello stesso gioco). Non possiamo più farne a meno ? È comunque opportuno saperlo.

Si crede di protestare contro una «cultura della rimozione» che si accanisce contro i simboli esterni, materiali, quando la più estesa e devastante delle rimozioni opera nel silenzio, come una formidabile castrazione chimica della protesta e dello stesso pensiero critico ridotto a innocuo gioco infantile.