Dalla fine della Prima Repubblica la Rai è la scatola nera di chi governa sia a destra che a sinistra

(Filippo Ceccarelli – repubblica.it) – Ci risiamo, doveva accadere prima o poi e Sanremo era l’occasione perfetta per “cambiare narrazione sulla Rai”, come suggerito dal sottosegretario alla Cultura, fratello d’Italia e manager musicale Gianmarco Mazzi. Ed è un irresistibile omaggio al lessico dei tempi e insieme all’ipocrisia quest’uso di “narrazione” per intendere conquista, predazione, saccheggio, spoglio, razzia – ciò che finora Giorgia Meloni non ha fatto, ma sta per fare.
Perché molto semplicemente dalla fine della Prima Repubblica la Rai è bottino di guerra e chi vince se la prende; destra sinistra o centro non fa differenza, c’è su questo la più ampia e incontestabile letteratura; e se tale selvaggia interpretazione può scandalizzare gli animi delicati o quanti ancora ritengono che il “servizio pubblico” – espressione che già riecheggia il più tragicomico cortocircuito con la realtà – abbia fra i suoi compiti “l’elevazione civica e spirituale dell’intera comunità nazionale”, come proclamò nel 2008 il ministro berlusconiano Sandro Bondi scagliandosi contro il programma “Glob” del comico Bertolino, beh, insomma, è così – e come sarebbe altrimenti?
Sia qui consentito tralasciare la stagione degli albori, il severo regime di Ettore Bernabei e la successiva più giocherellona saga della lottizzazione cui parteciparono prima i socialisti e poi i comunisti con la terza rete. Tramanda la più recente storia politica e leggendaria di Sanremo che nel 1981, l’anno più buio della storia del festival, il giovane Silvio Berlusconi prese contatto con l’amministrazione comunale per comprarsi, insieme con i diritti televisivi, l’intero baraccone dell’Ariston. Ma i furbi e saggi democristiani, a cominciare dall’indimenticabile sindaco Leo Pippione, gli risposero no, grazie. Anche a piazza del Gesù il festival, come del resto la Rai, erano vissuti, più che come un campo di battaglia irti di sterpi, come un vivaio in fiore per alleanze e combinazioni. Ogni capotribù aveva d’altra parte il suo impresario di fiducia della canzonetta, Aragozzini stava con De Mita, Ravera con Forlani, Radaelli con Andreotti, per cui a Sanremo, come negli studi televisivi e nelle case degli italiani, arrivavano misteriosi e ancor più misteriose cantanti, spesso napoletani, di cui s’ignorava il patronage. Durò fino al fatidico 1989. Una volta defenestrato De Mita, in sincronia con il festival Forlani attaccò “la Piovra” – poi venne giù tutto.
Così, oltre che terra di conquista, ora la Rai è scatola nera del potere e theatrum mundi, nel senso che nell’ormai compiuto spappolamento delle culture politiche i vincitori di turno si ritengono in dovere di manifestare il comando attraverso nomine, consacrazioni, promozioni, manipolazioni, omissioni e censure, favoritismi, marchette, sviluppi sentimentali e d’alcova (mai sfuggiti peraltro ai servizi segreti). Da tale premessa, ieri e oggi, traggono origine le interviste in ginocchio la domenica pomeriggio, le illustrazioni di grandi opere e firme di contratti in seconda serata, le dirette negate o concesse a quello o a quell’altro evento, gli spazi imposti a reti unificate, a parte qualche flebile lamento in Commissione di Vigilanza, ma quasi sempre con la spontanea complicità di dirigenti e funzionari che, bravi come nessun altro ad annusare il cambio di vento, da un trentennio cercano di indovinare, anticipare o comunque assecondare i desiderata dei nuovi padroni – pur disponendosi a cogliere per tempo l’arrivo dei nuovi.
Da questo punto di vista un buon metro rivelatore resta la fiction, cui i leader e i loro staff, non di rado piuttosto arruffoni, attribuiscono una specie di potere magico nella costruzione del senso con immediata ricaduta elettorale, per cui eccoti quella sul Carroccio e quella su Di Vittorio, quelle sui santi, i papi e le suore, o sui futuristi, il Risorgimento, Edda Ciano, però anche Nenni, la mafia, l’antimafia, i gay, gli immigrati, le foibe…
Di tale grossolana impostazione il festival di Sanremo rappresenta la continuazione con fantasmagorici mezzi, più o meno subliminali, dal bacio lesbico al capriccio imperiale di far esibire Apicella, dal Povia di “Luca era gay”, ma è guarito, alle inquadrature di riguardo per Scajola, dall’ostensione della famiglia più numerosa d’Italia (16 figli, 2015) alla richiesta leghista di canzoni in dialetto veneto. Ma poi tutto regolarmente si abbassa e l’addomesticamento della Destra, per dire, si disvelò nel 2003 grazie a supposte raccomandazioni di An proprio a Sanremo e poi a un giro di piccanti interrogazioni che portarono Luca Barbareschi, deputato di quel partito, a riconoscere amaramente: “Siamo stati capaci di portare in video solo delle zoccole”.
Per la verità, sempre da quell’area che oggi si scatena contro l’ultimo Sanremo si avvertirono anche le pressioni dei “Tullianos”, cioè dei parenti della donna del capo improvvisatisi produttori. Ma tutto questo è accaduto più o meno anche con Berlusconi, con l’Ulivo e i dalemiani, di nuovo con Berlusconi, di nuovo con l’Unione e poi ancora con Berlusconi, quindi con Renzi e compagnia cantante in un’ininterrotta saga all’italiana che tiene assieme la lobby di San Patrignano e la terrazza gauchiste, l’editto di Sofia e l’imperdibile saga legaiola del “Barbarossa”, coeva al finto spostamento di Rai2 a Milano, fino all’entusiasmo riformatore, all’ottimismo di Stato e al nuovo rinascimento propagato dal giovane premier rottamatore, secondo cui la Rai andava “restituita al paese”, figurarsi.
Chi vince, della Rai si può prendere l’AD e la Presidenza. Per il resto non conta un cazzo. Lo dimostra il fatto che qualunque coglione può attaccare a suo piacimento, in diretta televisiva su tutte e tre le reti, i vertici Rai e i politici che li hanno nominati al grido : l’arte e libera. Ovviamente, l’arte è libera solo se ad essere attaccati dagli artisti sinistri sono i vincitori cosiddetti destri.
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La TV pubblica e’ bottino di guerra della politica solo se vince il cosiddetto centro sinistra. Il cosiddetto centro destra quando vince può, al massimo nominare l’AD e la Presidenza. Per il resto non conta una mazza dato che anche eventuali sedie poste nei sottoscala sono occupate dai sinistri. Quanto avvenuto in questi giorni a Sanremo ne è la dimostrazione.
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Strabiliato e Minzolini direttore Tg1 chi l’ha messo, lo spirito santo? Per non parlare di Socci, Porro Ferrara Sangiuliano Barbareschi Insegno e via dicendo
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Tomaso Montanari per Il Fatto Quotidiano
“L’inquietante sensazione è che il marketing di Sanremo si sia mangiato proprio tutto: perfino il presidente della Repubblica, voluto e acquisito al Festival dall’onnipotente manager di Amadeus e Benigni, in una indecorosa “privatizzazione” della massima magistratura repubblicana, all’insaputa degli organi di governo del servizio (già) pubblico.
Del resto, la forza di Sanremo è questa: essere sempre, nel bene e nel male, lo specchio fedele dello stato delle cose. Ed è innegabile che l’imbarazzante rappresentazione della nostra eterna società di corte, col sovrano benedicente in persona e l’aedo osannante, sia stata terribilmente efficace: proprio perché capace di raccontarci per come siamo veramente, al di là delle intenzioni dei protagonisti. Per la stessa ragione, il preteso inno d’amore di Roberto Benigni è stato così imbarazzante: perché la Costituzione è tutto tranne che uno strumento di celebrazione del potere costituito. La Carta – diceva Piero Calamandrei – “è una polemica contro il presente, contro la società. Perché quando l’articolo 3 vi dice ‘È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana’ riconosce con ciò che questi ostacoli oggi ci sono, di fatto, e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la Costituzione! Un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare”.
Ebbene, la retorica fluviale di un Benigni autoridottosi a cantore dello stato delle cose è esattamente il contrario di queste parole acuminate: la Costituzione viene depotenziata, messa al guinzaglio, normalizzata. Diventa un bel sogno, del tutto inconferente con una realtà che, anno dopo anno, la contraddice sempre più profondamente. Bisognerebbe ricordare, allora, che la Costituzione è “sorella” di chi si batte davvero per farla rispettare e attuare: non di chi assiste inerte a questa deriva, rimanendo al potere da decenni. Altrimenti nulla rimane della “rivoluzione promessa” che, sempre secondo Calamandrei, vi è racchiusa: la Carta diventa un soprammobile trasmesso per via ereditaria, un innocuo sedativo utile ad addormentare del tutto le coscienze.
L’apice dell’ipocrisia si è toccato nel passaggio sulla prima parte del primo comma dell’articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra”. “Il verso di una poesia, una scultura”, l’ha definita Benigni, esaltandone “la forza, la bellezza, la perentorietà”, e concludendo che “se questo articolo lo avessero adottato le altre Costituzioni del mondo non esisterebbe più la guerra sulla faccia della Terra”. Fosse stato presente un bambino, uno di quelli capaci di dire che il re è nudo, avrebbe potuto urlare che non basterebbe affatto che altri Paesi adottassero questo articolo: lo dovrebbero poi anche attuare! Perché se lo facessero con la stessa coerenza dell’Italia, allora le guerre sarebbero ben lungi dallo scomparire.
Un anno fa, al tempo dei primi invii di armi all’Ucraina aggredita dalle truppe di Putin, i costituzionalisti si divisero tra chi riteneva quell’aiuto compatibile con l’articolo 11 e chi invece riteneva che fossimo fuori dalla Costituzione. Tutti, però, concordavano che se quell’invio non fosse stato immediatamente accompagnato da una forte azione diplomatica allora si sarebbe configurata la situazione di una risoluzione di una controversia internazionale solo attraverso l’uso della forza. Che è esattamente ciò che la Costituzione vieta: ed è anche esattamente ciò che, purtroppo, è poi puntualmente successo. Ci possono essere ben pochi dubbi, oggi, sul fatto che il continuo invio di armi, e la nostra partecipazione a un fronte occidentale che prolunga la guerra come mezzo per contrastare l’influenza di Russia e Cina, sia contrario allo spirito e alla lettera della Costituzione. Appare chiaro che l’Italia non sta lavorando per la pace, ma per la “vittoria” contro Putin: ciò che la Costituzione ci proibisce di fare! La guerra, insomma, non la stiamo affatto ripudiando: come dimostra a usura la presenza di un esponente di spicco dell’industria delle armi al ministero della Difesa.
Non è la prima volta che accade, purtroppo. Nel 1999 il primo governo D’Alema (di cui Sergio Mattarella era vicepresidente del Consiglio; per poi passare alla Difesa nel secondo dicastero D’Alema) partecipò a una guerra illegittima sia per la Carta dell’Onu sia per la nostra Costituzione. Non c’è da stupirsi: la logica del potere non è la logica della Costituzione. Quel che invece deve stupirci, e indignarci, è l’ipocrisia con cui un artista si piega al servo encomio e alla propaganda che tutto questo vorrebbe nascondere. “L’arte e la scienza sono libere”, dice la Costituzione: ma se sono gli artisti a consegnarsi a una servitù volontaria, allora per l’ennesima volta quelle parole rimangono inerti.
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Gli unici che non hanno “razziato” la Rai sono stati quei fessi dei 5S. L’avessero fatto oggi sarebbero probabilmente riusciti anche a renderla libera dai partiti: una volta in mano loro, tutti avrebbero votato qualsiasi riforma pur di liberare la Rai dalle “grinfie” del M5S.
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Ennio, sii sincero, cosa gli hai dato.
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Il problema della RAI è il concetto di servizio pubblico.
Portare l’acqua in casa con l’acquedotto è un servizio pubblico. Se scavo e metto io il tubo o se scavi e metti tu il tubo, l’acqua arriva uguale sia che tu sia di destra e io di sinistra che viceversa.
Ma la cultura e l’informazione, che riassumono in sé tutto il palinsesto televisivo, non arrivano uguali all’utente se li scavo io o se li scavi tu perché dietro c’è il pregiudizio culturale mio o tuo che, inevitabilmente, condizionerà cosa si porta o non si porta all’utente.
Ci vuol poco a capire che San Remo ultimo scorso è stato uno squallore oppure un momento di libertà progressista solo in relazione a chi ti dice l’una o l’altra cosa. Ed entrambi hanno ragione a loro modo. Quindi, quale delle due visioni del mondo ha la dignità per essere definita servizio pubblico?
Risposta: quella di chi è capace di essere egemone. Niente di più di questo.
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“Risposta: quella di chi è capace di essere egemone. Niente di più di questo.”
Ovviamente, la frase va intesa nell’accezione negativa di egemonia, come dimostrano le TV dei regimi dittatoriali.
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L’articolo della Costituzione più dimenticato ( quello che veramente ha cambiato l’Italia nel dopoguerra) è il secondo comma dell’Articolo 3.
Scomparso dai radar, forse perché poco ideologico ma molto concreto.
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