NEL 1963 UNA FRANA LO RESE INAGIBILE – È un set. L’americano ci ha girato “The Passion” e Rosi “Cristo si è fermato a Eboli”. A Craco la natura si è messa di impegno e ha svuotato le case dagli uomini, le strade dai fanti e dai bambini, la chiesa dal prete, il comune dal sindaco. […]

(DI ANTONELLO CAPORALE – Il Fatto Quotidiano) – A Craco la natura si è messa di impegno e ha svuotato le case dagli uomini, le strade dai fanti e dai bambini, la chiesa dal prete, il comune dal sindaco.
La natura a Craco ha organizzato magistralmente la sua reazione strategica al presidio umano, procedendo a una fenomenale sostituzione etnica.
La meraviglia di questo borgo, che non è ancora campagna ma nemmeno più paese, è che le case sono abitate finalmente da capre, e capretti gironzolano e giocano intorno alla pietra perduta, nella cornice urbana di un centro oramai frequentato dai quadrupedi che hanno preso il posto dei bipedi.
Il miracolo avvenne nel 1963 quando una enorme frana iniziò a scorticare il paese, sistemato nelle alture appena oltre la striscia marina del Metapontino, tra i calanchi delle colline materane che poi, ad ovest trovano la Val d’Agri, oggi capitale del petrolio italiano.
Craco era un paesino di duemila abitanti e la frana, che gli mise tanta paura, iniziò il suo lavoro di sgretolamento. Cosicché il pendio sul quale sorge ha iniziato a collassare mangiandosi le prime mura, ingoiando le pietre, gli argini, le cornici dei massetti a secco delle stradine.
Paura, spavento, dichiarazione di dissesto idrogeologico, allarme e infine diagnosi. La prefettura di Matera, su ordine del ministero dell’Interno, decreta l’eutanasia: Craco sarebbe morta prima di venire mangiata e i suoi abitanti trasferiti altrove. Chi in campagna, chi in città, chi verso Pisticci, chi verso l’America.
Tutti fuggirono, uno dietro l’altro. Tre solo famiglie resistettero e disubbidirono all’ordine. Solo il tempo le ha mietute.
E così – svuotato Craco – gli ingegneri del Genio civile di Matera, e i vigili del fuoco del distaccamento lucano attesero che la frana compisse il suo lavoro. Passò il primo anno, poi il secondo, infine il terzo. Oggi fanno quasi sessanta anni senza che il collasso sia poi davvero avvenuto.
Le case sono rimaste in piedi. E stanno crepando con moderazione, piano piano, poco alla volta. Piegandosi ai lati, bucandosi al tetto, scorticando le pareti, e le porte senza più legno i corridoi senza più ragione. Ma il perimetro delle case, e le mura e i comignoli e le luci e gli ingressi, e i cessi dove esistevano e le legnaie sono rimaste al loro posto. Al posto giusto, quindi.
E così gli uomini sono fuggiti ma al loro posto sono giunte le capre. Che hanno preso possesso delle povere camere da letto, delle cucine in muratura, dei giacigli senza più paglia. Le capre a Craco sono divenute residenti e resilienti. Capaci di trasformare la morte in vita, il vuoto in pieno.
Cosicché Craco, grazie alla natura matrigna ma a suo modo miracolosa, vive da sei decenni una nuova vita di speranza. È oggi il luogo obbligato del passaggio turistico selettivo, di chi, lasciata la striscia d’asfalto marina, la temuta statale 106 che collega Taranto a Reggio Calabria costeggiando tutto lo Jonio, s’imbuca verso queste colline, e le guadagna curvandosi tra i calanchi, che sono altri vuoti delle brevi e continue montagne d’argilla, pendi improvvisi, anfiteatri nudi, fino a raggiungere la sommità del paese , in fila indiana. Poi il biglietto per il giro turistico.
Craco è un fenomeno fisico: il pieno che diventa vuoto. È uno spettacolo muto, è l’origine della vita e anche la definizione aggiornata della morte.
Craco muore nel 1963 ufficialmente. Poi però resuscita e le sue capre e gli ulivi, e le pietre cadenti e cadute, le case sbrecciate, le mura piegate, le porte abbattute sono il suo trionfo.
Da Craco si passa per andare ad Aliano il paese di Carlo Levi, dello scrittore che nel suo confino scrive Cristo si è fermato a Eboli, il primo grande saggio sulla condizione meridionale. Però il film Francesco Rosi lo gira a Craco e in effetti c’è sapienza in questa scelta. Come anche Mel Gibson gira a Craco un altro grande film: la Passione di Cristo.
Craco diviene la tappa decisiva per illustrare il Sud piegato e povero, rurale e barbarico, quasi bestiale.
Craco, questo bellissimo nome, e le sue capre (e gli ulivi e le mura e il vuoto di questo sorprendente fantasma) sono divenuti così famosi da essere oggetto di un continuo pellegrinaggio.
È la beltà espansiva, che si gonfia malgrado il nulla. Fa strano vedere il paese sorreggersi malgrado tutto, e fa ancora più strano vedere che tutto ciò che è stato abbandonato è andato rivissuto, reintegrato, restituito al valore supremo della vita e della sua bellezza.
Craco è un cumulo di arte poverissima e insieme di esplosione naturale della capacità di affascinare con i residui, gli scarti, il peggio della nostra povertà.
È Craco l’emblema del paradosso: il vuoto che si fa pieno, la povertà ricchezza, l’ombra nuova luce, la casa invece castello.
Se andrete a Craco, provando nel viaggio il piacere della scoperta, avrete esattamente la certezza che il mondo, improvvisamente, si può capovolgere e illustrarci la vita sottosopra.
Viva gli ulivi, viva le pietre desolate e stanche di Craco, il paese delle capre.
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Ricordo anche il film “Basilicata coast to coast”.
Poesia pura.
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Il miracolo avvenne nel 1963 quando una enorme frana iniziò a scorticare il paese: Raccapricciante!
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