
(Paolo Valentino – Sette – Corriere della Sera) – Nulla distingue la casa al numero 12 di Ulitza Baskova, nel cuore di San Pietroburgo, dal resto degli anonimi edifici che le stanno accanto. L’unico segnale è che non è possibile visitarla. Negli Anni 50 era una komnunalka, una di quelle abitazioni nate dalla suddivisione dei grandi appartamenti signorili dell’epoca zarista, dove nell’Unione Sovietica più nuclei familiari convivevano, uno per stanza, condividendo cucina, bagno e corridoio. Vladimir Putin vi è nato e cresciuto, nella città che allora si chiamava ancora Leningrado.
In condizioni così modeste, suo padre era operaio in una fabbrica di treni, che la caccia ai topi in cui si distingueva non era solo il gioco di un’infanzia povera, ma una continua lotta per non farli dilagare. Un giorno il giovane Vladimir ne inseguì uno particolarmente grosso sulle scale con un bastone in mano, fino a costringerlo in un angolo. All’improvviso il ratto gli si lanciò contro sfiorando la sua testa e con un balzo riuscì a fuggire. L’incidente, avrebbe detto Putin nell’unica autobiografia scritta con alcuni giornalisti nel 2000, gli diede una lezione di vita, mai dimenticata: «Ognuno dovrebbe tenerlo a mente: mai mettere qualcuno in un angolo».
La lezione del topo
Il 24 febbraio scorso il presidente russo ha ordinato la più grande azione militare di terra in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una brutale guerra di aggressione contro l’Ucraina, decisa contro ogni logica razionale, in un azzardo geopolitico dove i rischi e costi si stanno rivelando molto più alti di un’effimera definizione di vittoria. E forse memore proprio del famoso topo, Putin l’ha motivata dicendo di esservi stato costretto, poiché «la Russia non aveva altra scelta».
Andare indietro nella biografia dell’uomo che si è auto-investito della missione di riunificare il Russkij Mir, il mondo russo separato dalla fine dell’Unione Sovietica, ultima incarnazione del sogno imperiale di una Russia eterna, è fondamentale per capirne il mistero. La vita di Vladimir Putin è infatti costellata di “Harte Wendungen ”, le svolte traumatiche dipinte da Paul Klee, che ne hanno influenzato fortemente la personalità, fino a farla scivolare in una sorta di autocrazia paranoica che lo avvicina ai più spietati despoti della storia russa, da Pietro il Grande a Stalin.
La svolta dell’ex hooligan
«Ero un hooligan, un ragazzo di strada», racconta di sé il leader del Cremlino. Così scatenato che un giorno Vera Dmitrievna Gurevich, la maestra della scuola elementare, andò dal padre per parlargli di quel ragazzo molto intelligente ma con la tendenza a perdersi. Il colloquio all’evidenza servì. Perché all’improvviso, all’età di 11 anni, il piccolo Volodia cambiò. Diventò il più bravo della classe in tedesco, iniziò a fare sport. Un naso rotto lo convinse che non era fatto per la boxe.
Fu nelle arti marziali che trovò la vera passione: «Il judo mi ha tolto dalla strada, non so cosa sarebbe stata la mia vita se non avessi conosciuto Anatoly Rakhlin, il mio primo maestro». Con lui ha appreso il kuzushi, movimento che tende a far perdere l’equilibrio fisico e mentale all’avversario per poi rovesciarlo, una tecnica che ha usato anche in politica. L’idea di fare la spia gli venne presto.
Una mattina, all’età di 16 anni, si presentò all’Ufficio del Kgb a Leningrado chiedendo cosa dovesse fare per lavorare lì. «Primo non prendiamo persone che vengono da noi di loro iniziativa» rispose il funzionario «e secondo si viene da noi o dopo essere stato nell’esercito oppure dopo aver studiato all’università». «Studiato cosa?», chiese il ragazzo. «Che so? Legge», disse quello forse con l’intenzione di toglierselo di torno. E così fu.
Nel 1975, fresco laureato in Diritto internazionale all’Università di Leningrado, Putin venne assunto dai servizi segreti sovietici. Cinque anni dopo, ormai tenente colonnello, sposato con l’ex hostess dell’Aeroflot Ludmilla Alexandrovna Skrebneva e già padre di una bambina, fu mandato come capo missione a Dresda, nella Ddr, con l’incarico di raccogliere informazioni su dissidenti e valutare le perfomance dei colleghi. Come nome in codice si scelse Platov, da quello di un generale che comandava i cosacchi nella guerra contro Napoleone. Al violoncellista e grande amico Sergeij Roldugin, che un giorno gli chiese in cosa consistesse il suo lavoro al Kgb, rispose: «Ero uno specialista in relazioni umane». La vita di Vladimir Putin si riassume intorno a quattro città del destino: Leningrado-San Pietroburgo sulla quale torneremo, la tedesca Dresda, Mosca e Sochi sul Mar Nero, vetrina del suo potere imperiale.
La capitale della Sassonia gli è rimasta nel cuore. Anche se è lì che il suo universo cominciò a oscillare. Erano gli anni della perestrojka di Gorbaciov, che i capi comunisti della Germania Est rifiutarono di seguire. La notte del 5 dicembre 1989, meno di un mese dopo la caduta del Muro di Berlino, il tenete colonnello Putin, che da settimane ormai aveva trascorso giorni e notti bruciando documenti riservati, chiamò la guarnigione sovietica di stanza a Potsdam chiedendo aiuto e sollecitando un intervento armato. Una folla inferocita aveva circondato la palazzina del Kgb e minacciava di assaltarla. La risposta fu negativa: «Aspettiamo ordini da Mosca, ma il centro tace».
Quella frase ha segnato per sempre la sua vita. La paralisi del potere e il caos della piazza sono stati da allora i suoi incubi. Come disse nel 2000, l’anno in cui fu eletto presidente della Russia, «in quelle circostanze funziona una cosa sola: devi colpire per primo e colpire così duro che il tuo avversario non dev’essere più in grado di reggersi in piedi». «Avremmo evitato molti problemi» aveva aggiunto «se non avessimo lasciato così frettolosamente l’Europa orientale». Il più macroscopico, secondo Putin, fu il successivo crollo dell’Unione Sovietica, quando la secessione delle Repubbliche, soprattutto di quelle slave, «fece dei russi il più grande gruppo etnico del mondo a essere diviso da confini di Stato». In quella notte nacque probabilmente la missione di volerlo riunificare.
Ritorno a San Pietroburgo
Aveva 38 anni nel 1990, Vladimir Putin, quando tornò sulla Nieva insieme a Ludmilla e alle due figlie piccole, portandosi dietro una lavatrice usata caricata sopra il tetto della Volga. A dargli un nuovo lavoro fu Anatoly Sobchak, il nuovo sindaco e uno dei personaggi più in vista della nuova Russia. Fu lui a cambiare il nome della città da Leningrado all’antico San Pietroburgo.
Diventò il suo vice. Fu nel suo ufficio allo Smolny, dove aveva appeso un ritratto di Pietro il Grande al posto di quello di Lenin, che un giorno della primavera 1991, in attesa di essere ricevuto dal borgomastro per un’intervista, Putin preparò il tè dal Samovar per me e la mia interprete Natasha Petrovna, parlando con molta nostalgia dei suoi anni in Germania. Nella città più europea della Russia nacque la “banda degli amici pietroburghesi”, la filiera in parte legata al Kgb che l’avrebbe accompagnato per il resto della vita.
La banda dei pietroburghesi e Medvedev
Lavoravano tutti insieme per Sobchak: il futuro premier e presidente Dmitrij Medvedev, il futuro ministro delle Finanze Alexeij Kudrin, il capo di Gazprom Igor Sechin, il boss dello sport russo Vitaly Mutko, il capo della Guardia Nazionale Viktor Zolotov, quello dei servizi segreti Sergeij Naryshkin. Poi c’erano i compagni di judo, i fratelli Rotenberg, Arkady e Boris, che sarebbe diventati i “suoi” oligarchi.
E non ultimo c’era il proprietario di un ristorante che lui frequentava, Egvenij Prigozhin, detto il cuoco di Putin, miliardario grazie ai catering per il Cremlino e fondatore della Wagner, la milizia mercenaria che interviene nel mondo, dalla Siria alla Libia, in nome e per conto di Mosca. Ma un’altra città del destino si profilò a quel punto all’orizzonte per Putin, che nel 1991, alla caduta dell’URSS, aveva lasciato il Kgb, «la decisione più dolorosa della mia vita». Quando Sobchak, travolto dalle accuse di corruzione, perse le elezioni del 1996, complici i buoni uffici di Kudrin già al ministero delle Finanze, per lui si aprì un posto nell’amministrazione presidenziale di Boris Eltsin.
Poche parole
Gli bastarono meno di due anni per imparare i codici di comportamento non scritti del Cremlino. Discreto, efficiente, di poche parole, sempre con la soluzione pronta. Già nel 1998 Eltsin lo nominò capo del Fsb, erede del Kgb. Sfruttò l’incarico alla perfezione, soprattutto mostrando totale lealtà al capo. Quando il Procuratore federale Yurij Skuratov aprì un’indagine per corruzione sulla famiglia di Eltsin, un video andò in onda improvvisamente su tutte le televisioni russe: mostrava Skuratov senza veli, in azione con due acrobatiche prostitute. Era il più classico dei kompromat nell’arsenale della Lubjanka.
Fu Putin in persona a spiegare in tv che il filmato non era un falso. Skuratov si dimise poche ore dopo. Eltsin lo ricompensò meno di un anno dopo, nominandolo a sorpresa primo ministro. Alla vigilia di Capodanno del 1999, lo designò suo successore al vertice della Russia. Poche ore prima che avvenisse il passaggio delle consegne al Cremlino, Putin celebrò con i suoi ormai ex “colleghi” del Fsb l’anniversario dei servizi sovietici: «Il gruppo che avete mandato in missione di infiltrazione in seno al governo, sta per compiere la sua missione», disse nel brindisi, scherzando ma non troppo.
Il 23 marzo 2000, dopo un breve interim al vertice, Vladimir Putin venne eletto presidente della Federazione russa con il 52,9% dei voti. «Riporteremo l’ordine», fu la promessa. Il suo cruccio era l’onore perduto della Russia, ormai declassata dal ruolo di Superpotenza e privata di quella uvazhenie, il rispetto che per i russi è bisogno esistenziale. Nei primi anni alla guida della Russia, oltre a ricostruire economicamente e politicamente un Paese annichilito dal Far West degli Anni 90, mettere in riga gli oligarchi e reprimere brutalmente la ribellione della Cecenia, Putin aveva avviato un dialogo stretto con gli Usa e l’Occidente, culminato nell’accordo di cooperazione Nato-Russia, addirittura arrivando a teorizzare che un giorno lontano Mosca avrebbe potuto far parte dell’Alleanza.
La svolta avvenne nel 2007, alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, quando lanciò un attacco a tutto campo contro gli occidentali, denunciando l’ordine creato dopo la Guerra Fredda, l’invasione americana dell’Iraq e soprattutto l’espansione della Nato fino ai confini della Russia, agli occhi di Putin un tradimento delle promesse fatte nel 1990 a Gorbaciov. Da quel momento, il leader russo iniziò l’inversione di rotta, avvitandosi in una spirale sempre più autoritaria all’interno, nazionalista e aggressiva all’esterno. Nel 2008 lanciò la prima azione militare nello spazio ex sovietico, occupando l’Abkhazia, territorio della Georgia. Ci sono molti fattori dietro l’involuzione di Putin e la sua metamorfosi in un leader sempre più autoritario. Le primavere arabe e la fine violenta di Gheddafi fecero su di lui una forte impressione. La prima rivoluzione ucraina, quella color arancione, fu un altro segnale devastante per il leader del Cremlino, che nel Paese vicino vedeva un pericoloso esempio di ribellione, rivendicazioni democratiche, caos.
Il fallito reset con l’Amministrazione Obama fu una conseguenza di questo cambiamento personale e politico. Nel 2011, quando da primo ministro (nel quadriennio in cui cedette la carica di presidente a Dmitrij Medvedev) lo incontrò per la prima volta a tu per tu, l’allora vicepresidente Joe Biden corresse radicalmente il giudizio che ne aveva dato George W. Bush anni prima: «L’ho guardato negli occhi e ho potuto vedere la sua anima». Biden ebbe un’impressione opposta: «Signor primo ministro, la sto guardando negli occhi e non credo che lei abbia un’anima». Putin rispose sorridendo: «Vedo che ci capiamo benissimo». Dopo l’annessione della Crimea nel 2014, decisa in seguito alla rivoluzione di Euromaidan a Kiev che lui definì un putsch orchestrato dagli americani, nulla è stato più lo stesso. Le sanzioni occidentali hanno accelerato la sua narrazione di un Paese accerchiato, che gli è valsa altissimi livelli di consenso. La polemica di Putin contro l’Occidente decadente e depravato si è fatta sempre più forte. Mentre all’interno, chi non si allineava come Alexeij Naval’nyj veniva perseguitato e subiva attentati alla propria vita.
Fu sul Mar Nero, nella quarta città del destino, che Vladimir Putin mise in scena la sua nuova dimensione imperiale, con i Giochi Olimpici invernali del 2014, una stravaganza miliardaria pagata dagli oligarchi, che lanciarono la località prediletta da Stalin come nuova capitale diplomatica della Russia. In quegli anni i leader del mondo passarono tutti da lì, da Erdogan, a Netanyahu, ad Angela Merkel, che Putin, conoscendone la paura dei cani, accolse facendo entrare nella stanza il suo labrador. E fu a Sochi che insieme ai suoi generali mise a punto prima l’annessione della Crimea e poi nel 2015 l’avventura in Siria, incoraggiato dai tentennamenti dell’Amministrazione Obama. Scommetteva e vinceva. «Putin è stato fortunato e questo è pericoloso per un giocatore d’azzardo», dice Gleb Pavlovski, politologo che ha lavorato con lui al Cremlino prima di diventarne oppositore.
Sono passati 22 anni dall’arrivo al vertice della Russia. Putin ha cambiato la Costituzione, ipotecando il potere fino al 2036. Il cerchio dei suoi consiglieri si è fatto sempre più piccolo, la sua distanza dal mondo reale sempre più grande. Lo Zar è solo. Il consenso scricchiola, complice una situazione economica in costante peggioramento. La pandemia ne ha accentuato l’isolamento fisico e mentale. È diventato imperscrutabile ai suoi stessi collaboratori. Nessuno sa quali saranno le prossime decisioni. Alla vigilia dei 70 anni, con una condizione di salute diventata segreto di Stato e secondo molti a rischio, Putin ha fretta. Vuole unificare il Russkij Mir, salvare la Russia eterna, rifarne una Grande Potenza. Annientando nel sangue l’Ucraina, la nazione sorella che “pretende” di scegliere da sola il proprio destino, vuole completare la missione. Ma come ricorda Pavlovski, «quando giochi alla roulette russa, pensi che Dio sia con te, fino a quando non arriva il colpo».
Dopo aver fatto barba capelli e shampoo a Putin , lo fara’ lo stesso servizio a Zelenski Biden o Draghi costui ? Voi che ne dite ?
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Il Jerusalem Post scrive che la base militare dove e’ stato fatto il raid oggi e’ una base dove avvengono esercitazioni congiunte tra forze ucraine e forse della Nato . Se cosi’ fosse , se ne deduce che l’ Ucraina non era ufficialmente nella Nato ma di fatto lo era gia’ . O no ?
https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-gennady_zyuganov_partito_comunista_russo_la_russia_sta_proteggendo_lumanit_dal_fascismo/45289_45583/
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“La Russia sta proteggendo l’umanità dal fascismo”
Condivido con Gennarino Zyuganov!
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Il Giornale di Minzolini domani fa un titolo a caratteri cubitali “BOMBE SULLA NATO ” sono giornalisti irresponsabili .
Cosa ci facevano uomini Nato in quella base ucraina , anche se era a venti km dal confine polacco . Questo devono dirci e invece ……
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Certo che son potenti le bombe russe se arrivano ad ammazzare e ferire ufficiali nato e polocchi ad almeno 20 km dal luogo d’esplosione.
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ATTUALITÀ
Il monologo di Crozza sulla guerra in Ucraina: “Putin sarà pure un pazzo, ma mancano basi Nato soltanto nel bagno del Cremlino”
Video
https://www.ilfattoquotidiano.it/2022/03/12/il-monologo-di-crozza-sulla-guerra-in-ucraina-putin-sara-pure-un-pazzo-ma-mancano-basi-nato-soltanto-nel-bagno-del-cremlino/6523713/
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grande onesta’ intellettuale di Luciano Canfora , onorato di essere suo concittadino
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La guerra in Ucraina
“Un gioco iniziato almeno dal 2014, dopo il colpo di Stato a Kiev che cacciò Yanukovich. È una guerra tra potenze”, intervista a Luciano Canfora
Umberto De Giovannangeli — 12 Marzo 2022
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Una voce fuori dal coro. Per “vocazione”. Controcorrente, anche quando sa che le sue considerazioni si scontrano con una narrazione consolidata, mainstream. Luciano Canfora, filologo, storico, saggista, professore emerito dell’Università di Bari, membro del Consiglio scientifico dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana e direttore della rivista Quaderni di Storia (Dedalo Edizioni), è così. Sempre stimolante, comunque la si pensi. E le sue riflessioni sulla guerra d’Ucraina ne sono una conferma.
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Professor Canfora, in queste drammatiche settimane, in molti si sono cimentati nel definire ciò che sta avvenendo ad Est. Qual è la sua di definizione?
Punto uno, è un conflitto tra potenze. È inutile cercare di inchiodare sull’ideologia i buoni e i cattivi, le democrazie e i regimi autocratici… Ciò che sfugge è che il vero conflitto è tra la Russia e la Nato. Per interposta Ucraina. Che si è resa pedina di un gioco più grande. Un gioco che non è iniziato avanti ieri ma è cominciato almeno dal 2014, dopo il colpo di Stato a Kiev che cacciò Yanukovich. È una guerra tra potenze. Quando i vari giornaletti e giornalistucoli dicono ecco gli ex comunisti che si schierano…Una delle solite idiozie della nostra stampa. Io rivendico il diritto di dire che le potenze in lotta sono entrambe lontane dalla mia posizione e dalle mie scelte, perché le potenze in lotta fanno ciascuna il loro mestiere. E né gli uni né gli altri sono apprezzabili. Nascondere le responsabilità degli uni a favore degli altri è un gesto, per essere un po’ generosi, perlomeno anti-scientifico.
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C’è chi sostiene che per Putin la vera minaccia non era tanto l’ingresso dell’Ucraina nella Nato o la sua adesione all’Ue, quanto il sistema democratico che in quel Paese ai confini con la Russia si stava sperimentando. Lei come la pensa?
Usiamo un verso del sommo Leopardi: “Non so se il riso o la pietà prevale” dinanzi a schemi di questo tipo…
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Dalla poesia alla prosa…
Se dobbiamo ritenere che sia democratico chi arriva al potere dopo un colpo di Stato, perché quando in Ucraina fu cacciato il governo in carica quello era un golpe, come quello di al-Sisi in Egitto contro i Fratelli Musulmani. Ognuno è libero di dire le sciocchezze che vuole ma adoperare queste categorie per salvarsi la coscienza, è cosa poco seria. Il figlio di Biden è in affari con Zelensky. Zelensky è un signore che dice di voler combattere per degli ideali, ma questi ideali hanno anche dei risvolti meno idealistici…
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Vale a dire?
Il Guardian, non la Pravda, nell’ottobre del 2021 fece un ritratto di Zelensky, dal punto di vista affaristico, molto pesante. Incitiamo i nostri simpatici gazzettieri ad andarsi a leggere il Guardian dell’anno passato per avere un ritratto realistico di Zelensky. Dopodiché non mi scandalizzo, perché quando si usano le parole libertà e democrazia c’è odore di propaganda lontano un miglio. O parliamo seriamente o facciamo propaganda. La propaganda peraltro è cosa molto seria, basta non crederci.
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C’è chi accusa la Russia di disinformatia…
Beh, anche il nostro apparato informativo è spaventoso, da quel punto di vista lì. Non ho nessuna tenerezza per la disinformatia russa, però lo spettacolo della nostra stampa, cartacea e televisiva, è peggio del Minculpop. A confronto il Minculpop è un’Accademia dell’Arcadia. Una stampa con l’elmetto, in cui dalla mattina alla sera non si fa altro che blaterare, urlare, protestare, piangere, sentenziare, per creare una psicosi di massa. Devo confessarle che nonostante ne abbia viste tante in vita mia, sono rimasto piuttosto stupito di cotanta prontezza, che fa pensare ad a ordini precisi, con cui la stampa si sia messa l’elmetto. Una cosa francamente penosa. Anche nella psicologia diffusa. Le racconto questa: l’altro ieri ho incontrato un tizio per la strada che mi ferma e mi dice: “Professore, ma lei cosa pensa di quel pazzo di Putin?”. “Qualche responsabilità c’è anche dall’altra parte”, gli rispondo. “Ah”, dice, “ma allora lei la pensa come me”. Questo è un episodio emblematico. Siamo arrivati all’autocensura per timore di scoprirsi. Come durante il fascismo, quando si diceva ma allora anche Lei è contro… Siamo ridotti a questo. Lanciamo almeno un campanello d’allarme affinché la stampa ridivenga dignitosa. Se ce la fa.
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I pacifisti che hanno manifestato sabato scorso a Roma, sono stati additati da più parti come dei “filo-Putin”…
È maccartismo puro. Non mi stupisce questo, una volta si diceva sono pagati per questo. È talmente in malafede dire una cosa del genere che non merita neanche un’argomentazione complessa. Perché rivela da sé la natura maccartistica, persecutoria, isterica, di falsa coscienza di una tale valutazione. È chiaro che tutti auspichiamo che si torni a una vera situazione pacifica. Ma ricordiamoci il passato, però…
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Ricordiamolo, professore.
Gorbaciov auspicò la Casa comune europea. E fu respinto. Aggiungiamo anche che dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, nacque la Comunità degli Stati Indipendenti, di cui facevano parte l’Ucraina, l’Asia centrale russa, la Georgia. La Comunità degli Stati Indipendenti è un concetto. Comunità vuol dire qualche cosa. Se tu dopo un colpo di Stato, quello del 2014, cominci a chiedere di entrare nella Nato, stai disattendendo un impegno preso non molti anni prima. Ci vuole una Conferenza per la sicurezza europea. Una via di uscita. Se esistesse l’Unione Europea, che purtroppo non esiste, la soluzione sarebbe quella di prendere una iniziativa per una Conferenza per la sicurezza in Europa. Di cui gli Stati Uniti non fanno parte. Invece l’Europa è ingabbiata dentro la Nato il cui vertice politico e militare sta negli Stati Uniti. Il comandante generale della Nato per statuto deve essere un generale americano. Il segretario generale della Nato per entrare in carica, anche se si chiama Stoltenberg ed è norvegese, deve avere il placet del governo degli Stati Uniti. Imbavagliati così, balbetteremo sempre.
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In queste settimane di guerra, ci si è molto esercitati nella decodificazione dei vari discorsi pronunciati da Putin, nei quali il presidente russo ha evocato la Grande Guerra Patriottica, la Madre Terra Russia, il panrussismo etc. Da storico: non c’è da temere quando un politico, soprattutto se questo politico ha in mano una potenza nucleare, sembra voler riscrivere la Storia?
Questo mi pare evidente. Solo che il paragone storico più calzante sarebbe un altro…
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Quale?
Quello che un ottimo studioso italiano, Gian Enrico Rusconi, quando la Nato si affrettò a disintegrare la Jugoslavia, intitolò un suo libro, un bel libro, a riguardo Rischio 1914. Ci siamo dimenticati che dopo la disintegrazione dell’Unione Sovietica, la Nato ha voluto, pezzo a pezzo, mangiarsi lo spazio intermedio fino ai confini della Russia? E il primo ostacolo era la Jugoslavia. E quando ci fu la secessione della Croazia, analoga se vogliamo alla secessione del Donbass, il primo a riconoscere il governo croato fu il Papa e il secondo fu il governo federale tedesco. E tutti applaudivano. La secessione della Croazia era un gioiello, una bellezza. Adesso la secessione del Donbass è un crimine. Rischio 1914. Lo dico con allarme. Sul Corriere della Sera, una voce sensata, quella di Franco Venturini, dice: ma ci rendiamo conto che Zelensky sta continuando a chiedere l’intervento militare della Nato, cioè vuole la Terza guerra mondiale…Ce ne rendiamo conto o no?
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Lei come giudica la decisione del governo italiano di inviare equipaggiamenti militari all’Ucraina?
L’Unione europea, che purtroppo non esiste, avrebbe dovuto avere una politica unica su questo come su altri terreni. È piuttosto sconcertante e politicamente sbagliato che ognuno vada per conto suo. Nel caso particolare l’Italia vuole fare la prima della classe. Spero che si mantenga entro limiti accettabili per la controparte, stante che noi abbiamo in casa le basi Nato. Se continuiamo a scherzare col fuoco, facciamo quello che Zelensky insistentemente chiede. A questo proposito mi permetto di raccontare una cosa che peraltro è verificabile. Giorni fa, sulla Rete Tre della televisione, in un talk show c’è in studio una studiosa ucraina, e viene mandato in onda un discorso di Zelensky che viene tradotto, in simultanea, in italiano. A un certo punto, la studiosa ucraina dice “attenzione, la traduzione è sbagliata”, perché lui sta dicendo altro. “E che sta dicendo, le chiede la conduttrice?”. “Sta dicendo che bisogna che la Nato intervenga militarmente”. La traduzione voleva occultare questo. Figuraccia della televisione italiana. Rischiamo di raccontarle queste cose, perché tra breve, non so, leggeremo il Vangelo secondo Riotta? Spero di no.
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Se qualcuno alzasse l’indice accusatorio e dicesse: ecco, il professor Canfora ha svelato di essere un nostalgico del tempo che fu…
Come risponderebbe?
Io non credo di aver manifestato nostalgie nel momento che mi sono più volte espresso intorno agli scenari conseguenti alla sconfitta dell’Unione Sovietica nella Guerra Fredda. Nessuno, però, può toglierci il diritto di dire quello che ha scritto, poco prima di morire, Demetrio Volcic. E cioè che la situazione di equilibrio esistente al tempo delle due super potenze, garantiva la pace nel mondo. Demetrio Volcic. Spero che sia considerato al di sopra di ogni sospetto.
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Umberto De Giovannangeli
Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.
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https://www.ilriformista.it/zelensky-salito-al-potere…/
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https://www.ilriformista.it/zelensky-salito-al-potere
Un altra pagina rimossa!
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“Un gioco iniziato almeno dal 2014, dopo il colpo di Stato a Kiev che cacciò Janukovyč”
sarà pure uno storico, ma ha la memoria corta, visto che il ‘gioco’ è iniziato ben prima del 2005,
con la rivoluzione arancione, che ha portato alla presidenza Juščenko, quello della diossina,
e che, grazie a questa, riuscì a farsi eleggere al secondo turno con votazioni contestate e ripetute
da notare che, nelle elezioni successive, ebbe le peggiori performance del miglior presidente Ucraino
esistito sino ad allora (per avere un paragone, tipo Renzi ) quando gli ucraini scelsero
di tornare all’usato sicuro, Janukovyč.
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Questo ancora no
Questo articolo ha più di 6 anni
I paracadutisti statunitensi iniziano ad addestrare le unità della guardia nazionale ucraina
Questo articolo ha più di 6 anni
Quasi 300 soldati statunitensi tengono esercitazioni congiunte con 900 controparti ucraine in una mossa che secondo Mosca potrebbe destabilizzare la situazione nell’est del paese
I paracadutisti statunitensi hanno iniziato ad addestrare unità della guardia nazionale in Ucraina , nonostante gli avvertimenti di Mosca che potrebbero destabilizzare il processo di pace con i ribelli sostenuti dalla Russia nell’est del paese.
La mossa è arrivata quando 2.000 soldati locali e della Nato hanno iniziato le esercitazioni in Estonia, che confina anche con la Russia ma, a differenza dell’Ucraina, è un membro della Nato. Le esercitazioni sono un precursore dei giochi di guerra congiunti di maggio che hanno coinvolto 13.000 soldati.
I dirigenti degli Stati Uniti e della NATO hanno promesso di aumentare le loro attività militari nell’Europa orientale per scoraggiare una Russia sempre più assertiva.
Nell’ambito dell’operazione Fearless Guardian, durata sei mesi, 290 paracadutisti della 173a brigata aviotrasportata dell’esercito americano terranno esercitazioni congiunte con 900 soldati ucraini a Yaroviv, vicino al confine con la Polonia. Il 173 ° Airborne ha condotto giochi di guerra con soldati provenienti da Ucraina, Regno Unito e diverse ex repubbliche sovietiche a Yavoriv a settembre, ma questo segna il primo programma di addestramento a lungo termine.
In una cerimonia di apertura, il presidente ucraino, Petro Poroshenko, ha affermato che l’addestramento darebbe un “nuovo volto” all’esercito di leva ucraino, che è scarsamente addestrato ed equipaggiato ed è stato colto alla sprovvista dalla rivolta filo-russa iniziata a Donetsk e Luhansk regioni nell’aprile 2014. Da febbraio è in vigore un fragile cessate il fuoco, ma più di 6.000 persone sono state uccise nelle ostilità.
“Questo è il primo programma ucraino-americano a questo livello e mostra la transizione della cooperazione militare bilaterale in una dimensione fondamentalmente nuova”, ha affermato Poroshenko. In seguito ha twittato una sua foto con due pollici in su accanto ai membri del 173 ° e all’ambasciatore degli Stati Uniti in Ucraina, Geoffrey Pyatt.https://twitter.com/poroshenko/status/590140483181109249
https://www.theguardian.com/world/2015/apr/20/us-paratroopers-begin-training-national-guard-units-in-ukraine
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ogni volta che commento qualcosa riguardo la guerra in Ucraina per chiarezza :
L’invasione della Russia in Ucraina il 24 febbraio 2022 è una violazione del divieto delle Nazioni Unite sull’uso della forza e quindi illegale. Ma c’è una storia: l’espansione verso est della NATO e il colpo di stato statunitense del 2014 in Ucraina. ma possiamo andare
anche al 2007
Il giornalista del corriere ci racconta chi è Putin
leggiamo chi lo ha conosciuto veramente
Capire Putin: l’analisi del diplomatico Usa che lo conobbe già negli anni ’90.
John Evans, console a S. Pietroburgo nel 1994–97, sfata alcuni miti molto radicati nei media americani.
[Titolo originale: The Key to Understanding Vladimir Putin, di John Evans, in The National Interest, 21 settembre 2019]
:…..Potrei continuare a lungo, descrivendo le tante cose che hanno spinto la Russia nella sua attuale corsa difensiva contro l’Occidente e soprattutto contro gli Stati Uniti. Le nostre guerre in Medio Oriente (Afghanistan, Iraq, Siria e Libia), che hanno seriamente destabilizzato quella regione; le “rivoluzioni colorate” (Rosa in Georgia, Arancione in Ucraina, dei Tulipani in Kirghizistan); e, forse la più devastante di tutte, la campagna mediatica a tutto campo per marchiare la Russia come una nazione aggressiva da non includere nella nuova architettura di sicurezza europea — tutte queste cose sono molto sentite dai russi. E non possiamo dire di non essere stati avvertiti. George Kennan F. scrisse già nel 1996 che l’espansione della NATO era un “errore strategico di proporzioni potenzialmente epiche”. E Vladimir Putin, nel suo intervento molto discusso alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera del 2007, ha dato voce alle crescenti preoccupazioni della Russia per i modi imperiosi di Washington.”
l’articolo è troppo lungo per evitate moderazioni
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