Una volta tanto anche nello sparutissimo manipolo di pensatori dell’intellighenzia post-missina qualcuno ha il coraggio di gridare che, almeno finora, la corazzata Potëmkin meloniana è stata una boiata pazzesca

(di Massimo Giannini – repubblica.it) – Sia lode ai Marcello Veneziani, ai Franco Cardini, ai Giordano Bruno Guerri. Finalmente, anche a destra, qualcuno scuote l’albero. Intendiamoci, parliamo di “spelacchio”, l’abetino poverello che fatica a germogliare nella tronfia rive droite dove da tre anni e mezzo riecheggiano solo i triti dettami del tardo Ventennio: la donna sola al comando, credere obbedire combattere, dio patria famiglia, il complotto dei soliti comunisti, chi non è con me è contro di me, e via delirando. Ma vivaddio, una volta tanto anche nello sparutissimo manipolo di pensatori dell’intellighenzia post-missina qualcuno ha il coraggio di gridare che, almeno finora, la corazzata Potëmkin meloniana è stata una boiata pazzesca.
Giorgia ha fatto un capolavoro: nel 2013 parte da via della Scrofa con un misero 1,4%, nove anni dopo entra a palazzo Chigi con il 26,6. Ma cos’è cambiato in Italia da quel trionfale 25 settembre 2022? Cos’è rimasto della grande “rivoluzione conservatrice” sognata e promessa dai nipotini di Almirante e sintetizzata nelle mitiche tesi di Trieste? In che cosa si sono tradotti la «filosofia dell’identità» e lo «spirito nazionale», la «nuova sovranità monetaria» e il «valore dei nostri giovani»? Insomma, dov’è la vera, nuova «egemonia culturale» di questa destra al potere, esaltata e appagata solo dall’averlo raggiunto?
Veneziani ha il merito di aver posto su La Verità queste domande, che nella casamatta meloniana sanno di apostasia. A un governo autocratico — che smercia qualunque patacca per «evento storico», dall’oro di Bankitalia al popolo alla cucina tricolore patrimonio dell’Unesco — non puoi rimproverare «solo vaghi annunci, tanta fuffa, un po’ di retorica comiziale e qualche ipocrisia».
A un partito-setta — che mantiene una vocazione clanica e minoritaria mentre si spaccia per «partito della Nazione» — non puoi non saper indicare «qualcosa di rilevante che dica al Paese “da qui è passata la destra, sovranista, nazionale, patriottica, popolare, conservatrice” o quello che volete voi». E agli improbabili ma irriducibili maître à penser nati a Colle Oppio e cresciuti a pane e Codreanu — che pensano di fare «egemonia gramsciana» con una mostra sul futurismo e un’opa su Pasolini — non puoi dire «sul piano delle idee, della cultura e degli orientamenti pubblici e perfino televisivi, eccetto l’inchino al governo, tutto è rimasto come prima».
Se fai tutto questo, non sei un intellettuale onesto: sei solo un traditore o un ricattatore. Spari sul quartier generale perché speri che qualcuno ti ci faccia entrare. Questo risponde a Veneziani il competente ministro della Cultura, che lo rimprovera di nemichettismo: «Sversa su di noi la bile nera di cui trabocca il suo animo colmo di cieco rimpianto». La solita circonlocuzione barocca del divo Giuli, per dire che l’ex amico Marcello rosica perché voleva la sua poltrona al Collegio Romano.

E per il resto, vae victis!: guai a tutti quelli che sui giornali-parenti osano salire sul carro del perdente. Tipo Mario Giordano, che da spirito libero scrive «Veneziani è colpevole di non aver leccato gli stivali di Giuli. A chi il leccaculo? A noi! Anche questo in fondo è un segnale di decadimento della destra al potere…». Impossibile dargli torto.
E ancora più impossibile è dar torto a Franco Cardini, che in un’intervista a Repubblica, a proposito del lavoro culturale di FdI, parla di «encefalogramma piatto» e aggiunge «non c’è nemmeno una rivista culturale, quando hanno dei soprassalti fanno le mostre su D’Annunzio o su Tolkien, che conoscono anche i maestri di Vigevano e le casalinghe di Voghera, per dimostrare che la cultura la fanno anche loro, ma francamente è un po’ ridicolo».

Le cose stanno esattamente così. Se rimettiamo insieme le parole e le opere della premier e della sua milizia, qual è la svolta culturale che segna il cambio d’epoca? La “Ducia Maior”: qualche frasetta sciolta di Roger Scruton in Parlamento, qualche citazione a caso di Thomas Eliot al meeting di Rimini. I “gerarchi minori”: qualche intemerata su Peppa Pig da Mollicone, qualche pièce teatrale di Mellone.
Per il resto, fuffa ideologica e poltronificio. Riproduzione su vasta scala della paccottiglia trumpiana (Italia first e sostituzione etnica, sovversivismo dell’élite e sovranismo bianco, ateismo devoto e familismo immorale). Occupazione manu militari della Rai e del circuito-cinema, dei teatri stabili e degli enti lirici.
A rifondare la “nuova Italia” non bastano una rassegna sul Signore degli anelli o un concerto di Baglioni al Senato. Il catalogo neo-nazi di Passaggio al bosco con i testi di Mussolini e di Junio Valerio Borghese o il pantheon posticcio di Atreju con D’Annunzio e Charlie Kirk. Carlo Conti che dispensa primizie sanremesi o Gigi Buffon che sparge delizie sulla commander in chief.
L’unica ossessione della destra è il nemico a sinistra. E la sua unica missione è la purga che ne cancella gli “idoli”. Perché solo questo di tanta speme oggi le resta: l’occhiuta sorveglianza di Giampaolo Rossi a Viale Mazzini, la cieca resistenza di Beatrice Venezi alla Fenice. E come ricorda Fabrizio Roncone sul Corriere della Sera, già nel 2020 Veneziani dettava a Panorama la sua profezia: «Oltre a Giorgia, cosa c’è di notevole nel suo partito? C’è una classe dirigente adeguata, a parte vecchie glorie e giovani cognati?». Per poi concludere: «La sinistra ha un’idea dell’egemonia, e sa come praticarla. La destra ha solo un’idea militare». Era vero allora, pare ancora più vero oggi.
Nonostante le disfatte elettorali, la rive gauche è ancora popolata di scrittori e attori, registi e opinionisti. Ma con due differenze fondamentali rispetto all’altra sponda. La prima è che nessuno li alleva: non c’è più il Pci di Berlinguer, che organizzava gli stati generali della cultura convocando intellettuali di ogni ordine e grado. La seconda è che nessuno li criminalizza: se di qua sono di casa la critica distruttiva al Pd e la satira abrasiva sul campo largo, di là non capita mai nulla di simile.
Meloni e i suoi Fratelli possono fare o dire qualunque nefandezza ma nessuno attizza mai un po’ di sano “fuoco amico”. E se uno solo osa, come Veneziani, fa subito scandalo. Persino Giuliano Ferrara si adonta, deprecando il “nannimorettismo” a destra. Rimane da sciogliere solo l’ultimo dubbio sul senso del j’accuse.
Qual è la vera colpa, nella mancata trasformazione del Paese? Quella di non aver compiuto la vera svolta “centrista e governista” (creando una forza europeista e non “occidentalista”, repubblicana e riformatrice, costituzionale e liberale)? Oppure è quella di aver dismesso la postura “estremista e radicale” degli anni ruggenti (rinunciando alla rottura con l’Europa, agli spot contro le accise dal benzinaio e agli strilli sui blocchi navali nei salotti tv)?
Se è la prima — come ci sarebbe ancora bisogno, a dispetto della falsa Belle époque del Cavaliere — allora è giusto contestare Meloni e pretendere un’operazione-verità. Se è la seconda — come purtroppo suggerisce lo spirito del tempo, da Trump a Milei, da Orbán a Netanyahu — allora è meglio tenersi la Meloni di oggi. Piagata dall’ambiguità, piegata dalla realtà.
Firmiamo per fermarli
(Di Marco Travaglio – il Fatto Quotidiano) – Una delle domande che più spesso ci rivolgono i lettori è questa: “Che posso fare io per cambiare le cose?”. Ecco un’iniziativa a costo zero e col minimo sforzo, un paio di minuti per un clic tra una festa e l’altra: firmare perché anche il popolo del No alla schiforma della magistratura possa chiedere il referendum e possibilmente vincerlo. Il referendum si farà comunque, perché nella sua bulimia il centrodestra l’ha già chiesto in una delle tre modalità previste dalla Costituzione per le riforme costituzionali senza maggioranza parlamentare dei due terzi: la raccolta firme di un quinto dei parlamentari. Le altre due sono la richiesta da parte di cinque Consigli regionali e quella di iniziativa popolare firmata da almeno 500 mila cittadini. Ma l’una non esclude l’altra. Perché dunque dobbiamo firmare? Anzitutto perché il governo non possa più dire, dopo aver imposto (in luogo del Parlamento) la riforma costituzionale, che il referendum si farà solo grazie al centrodestra. Ma le ragioni principali sono altre due, una pratica e una mediatica.
La prima è che il governo – visti i sondaggi che danno i No in rimonta, sempre più vicini al Sì – non ha ancora rinunciato al colpo di mano per anticipare la data del referendum all’inizio di gennaio, sperando di anticipare il sorpasso: con un’alluvione di No di qui alla scadenza del 31 gennaio, mancherebbero i tempi tecnici previsti dalla Costituzione e dalla legge per fissare la data del voto prima di fine marzo-metà aprile. La seconda è che sui media governativi, cioè quasi tutte le tv e i giornali, si ascolta soprattutto la voce del Sì, con livelli di propaganda e di menzogna imbarazzanti, secondi solo a quelli sulla guerra e sul riarmo (dal caso Tortora a Garlasco ai bambini nel bosco: tutti fatti che semmai dimostrano l’inutilità e l’assurdità di separare le carriere e i Csm). Per ribaltare il clima e la percezione della schiforma nell’opinione pubblica, è importante che almeno mezzo milione di persone, ma possibilmente molte di più, firmino per il No. E lo facciano presto, senza attendere gli ultimi giorni di fine gennaio. Un effetto-valanga costringerebbe i media a parlare delle ragioni del No e innescherebbe un circolo virtuoso di “passaparola”: facendo sentire protagonisti milioni di italiani, raggiungendo molti indecisi, indifferenti, astenuti cronici, e illustrando a chiunque voglia informarsi danni che la cosiddetta riforma causerebbe non ai magistrati (che non ci rimetterebbero nulla), ma a tutti noi cittadini senza santi in paradiso. Per firmare non serve neppure uscire di casa: si può farlo online, con lo Spid o con la carta d’identità elettronica Cie, sulla piattaforma pubblica al link https://firmereferendum.giustizia.it/referendum/open/dettaglio-open/5400034. Firmiamo per fermarli.
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La posta in gioco è alta non tanto per il titolo propagandistico “divisione delle carriere” ma per l’ attacco neanche tanto velato all’ indipendenza della magistratura alla quale necessità mettere il guinzaglio. È il vecchio chiodo fisso di Berlusconi ereditato da questo governo presieduto dai figli e nipoti di Almirante che però, almeno questo, era legalitario come da scuola mussoliniana . Qui c’è la casta che gioca sottotraccia ed è trasversale ai partiti che nasconde sotto questo referendum la propria voglia di essere egemone e non tollerare le ingerenze ” giustizialiste” tese a fare rispettare il sacrosanto principio costituzionale : la legge è uguale per tutti .
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FATTO IL 23/12
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Ho provato sul link governativo che mT ha messo ,ma non funziona…”servizio non attivo”
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https://firmereferendum.giustizia.it/referendum/open/dettaglio-open/5400034
CLICCA SU ACCEDI poi SPID
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ho appena provato: funziona
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Adriano@ Mah… sarò incapace io, ma dov’è che ti dà la possibilità di scegliere ?
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dalla pagina del link,
in alto a destra clicchi su ACCEDI,
entri con la SPID,
poi segui le indicazioni e scegli di sottoscrivere. referemdum di inizariva popolare
Alla fine puoi scaricare anche l’Attestato di sottoscrizione
INIZIATIVA PREVISTA DALL’ARTICOLO 138 DELLA COSTITUZIONE,
altro non saprei come descrivertelo
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Mah… non va avanti
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Caro MT, non discuto l’articolo, discuto sul fatto che tanti “vecchi” che vorrebbero firmare, non sanno dove andare perché tantissimi non adoperano i pc né tanto meno lo spid e nell’articolo non lo scrivi.. Se c’è qualcuno che può dare indicazioni in merito lo scriva per favore.. Grazie..
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bisogna controllare se nel proprio comune hanno i moduli sul referendum per apporre la firma. altrimenti si devono fare aiutare per farlo online
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Firmato.
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Provato con CIE… pass decaduta…effettuato recupero …si presenta errore… provato più volte …abbandono!
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Anche a me da errore.
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Firmato, dove possibile aiutiamo noi i “nostri vecchi” a firmare!!!
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In realtà è superfluo chiedere un referendum su questa legge quando è stata ordinata tassativamente dalla Costitizione non essendo stata raggiunta il Parlamento la quota minima dei due terzi. Per cui, che lo chiediamo o no, il referendum si farà. Il Governo può solo stabilire quando. E si ipotizza che sarà prima possibile perché più passa il tempo più i voti calano, Salvini impesta, i cittadini stanno peggio e la maggioranza è a rischio.
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Viviana, perché allora MT sapendo che è inutile caldeggia la partecipazione al voto online? Sei sicurissima che sia come dici tu?
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Chiedo scusa, ho fatto un pò di confusione, oggi non gira!🙄
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Sino ora solo il 4% ha votato. Dai ragazzi mettiamocela tutta, non vedo l’ora di dare dentro la cabina un calcio nel cul@ a Maria Antonietta e al suo circo di affamati pagliacci ignoranti nostalgici dal braccio sempreteso!
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in effetti…
In Italia, il procedimento di revisione costituzionale è disciplinato dall‘Articolo 138 della Costituzione. Questo articolo prevede un percorso più complesso rispetto alle leggi ordinarie (procedimento “aggravato”) per garantire che la Carta fondamentale non venga modificata da una maggioranza occasionale.
Quando in seconda deliberazione non si raggiunge la maggioranza qualificata dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera, ma si ottiene comunque la maggioranza assoluta (50% + 1 dei componenti), la legge non viene promulgata immediatamente.
Ecco cosa succede in questi casi e gli esempi storici più rilevanti.Il Procedimento in mancanza dei due terzi
Se la legge è approvata a maggioranza assoluta ma inferiore ai due terzi:
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