Il disco rotto

(Tommaso Cerno – lidentita.it) – Sappiamo bene di mentire, prima di tutto a noi stessi. E sappiamo anche bene che il tempo necessario per rendere il nostro territorio sicuro è un tempo molto lungo, non del tutto efficace a prevenire i danni legati a un meteo che si scatena in pochi minuti con la stessa furia di un terremoto e la stessa quantità d’acqua di un anno intero di pioggia. Che si riversa li, improvvisa come un tuono, in pochi chilometri quadrati. Lo sappiamo perché le occasioni di cambiare marcia ci sono state. Lo sappiamo perché abbiamo già visto le scene che rivediamo oggi per l’ennesima volta, scene sopra le quali oggi gli occhi degli italiani tornano per stringersi al dramma dell’Emilia Romagna. Sapendo bene che fra qualche giorno il circo cambierà città. Perché l’esperienza ci dice che le altre volte l’impegno non è stato mantenuto. E che se guardiamo progetti e proclami non si salva nessuno. Né a destra né a sinistra. E che le ragioni di questo ritardo sono tante. Una su tutte le migliaia di città e paesi che hanno bisogno di interventi strutturali, con i conseguenti migliaia di bandi e di appalti e milioni di euro che devono trasformarsi in altrettanti lavori di cura di un territorio, senza che questi producano un effetto politico. Unica cosa che nei tempi del giudizio istantaneo e del consenso social conta davvero. Invece qui serve scommettere sul fatto che questo costoso lavoro silenzioso possa un giorno tornare utile a dire che abbiamo salvato vite umane, abitazioni, attività commerciali. E che qualcuno se ne accorga in assenza della controprova. E c’è da dire che per quanto bravi, noi possiamo già subito fare molto per ridurre i morti di fronte a eventi così violenti, ma molto meno possiamo immaginare di riuscire a fare per limitare i danni alle costruzioni e alle strade. E questo perché dagli anni ’50 sono milioni e milioni i metri cubi che abbiamo aggiunto al nostro patrimonio storico che ci viene dai secoli e che si trovano nelle zone dove il buon senso, la scienza, l’urbanistica ci dicono che sarebbe folle edificare. E così, zitto zitto, il nostro è diventato – al contrario del Giappone che affronta un terremoto ogni 48 ore senza morti da anni – per storia e per mentalità il paese specializzato nelle emergenze, nelle grandi mobilitazioni, nella solidarietà di popolo di fronte al cataclisma e alla morte. Non abbiamo invece un decimo di quell’entusiasmo e di quella naturale capacità di affrontare l’ignoto se di fronte a noi si mostra l’ordinaria manutenzione, la politica della programmazione e dei piccoli passi. Immagino che per chi sia stato colpito negli ultimi anni da terremoti o alluvioni le parole che anche oggi continuiamo a sentire, risuonino identiche all’orecchio dal giorno in cui furono loro gli sventurati protagonisti di eventi analoghi. Sembra quasi questo paese preferire una macabra rincorsa al record di solidarietà e di solerzia degli interventi piuttosto che a quello di una lenta rincorsa al corretto abitare, a un rinnovato patto tra uomo e spazio capace di dare all’uno la possibilità di sfruttare le potenzialità dell’altro, evitando entrambi i reciproci soprusi. Quelli dell’uomo che si sente padrone di tutto e potente su tutto, fino a rendere il suo habitat il proprio invisibile nemico silenzioso. E quelli dell’altro, del territorio, capace di essere per l’uomo la sua principale risorsa ma al tempo stesso tramutarsi in poche ore nel pericolo più grande. Non è un fatto solo italiano. Certo noi non ci facciamo mancare niente in fatto di ritardi, aumenti dei costi, corruzione e ogni altro ingrediente che rende il già difficile compito di sistemare le cose più grande dei danni stessi che dalla nostra inerzia si producono. Ma questa tendenza riguarda l’intera Europa in verità. Il problema cioè di adeguare se stessa, la sua storia al mutato clima del pianeta, per quanto riguarda la dimensione globale di questo problema, e alle necessità di adattamento locale che pur diverse accomunano il continente in un rischio idrogeologico ogni giorno che passa più forte.

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