L’ultimo libro di Massimo Fini, un cieco che si guarda e trova l’abisso

Massimo Fini ha pubblicato una nuova opera autobiografica, la terza in quindici anni dopo “Ragazzo” e “Una vita”. Le pagine accompagnano il lettore alla scoperta della sottile e costante disperazione che ha accompagnato il Fini uomo, che perde lentamente e inesorabilmente la vista. In questo suo triste viaggio compie un tuffo introspettivo non di poco conto, rendendo al lettore un’immagine di se stesso il più sincera possibile…

(di Alessio Mannino – mowmag.com) – L’ultimo libro di Massimo Fini è per finiani di stretta osservanza (cosa che, fra parentesi, chi scrive non è). In questa opera autobiografica, la terza nell’arco di quindici anni dopo “Ragazzo” e “Una vita“, neppure di striscio “l’anarcoide mezzo pazzo” (Giorgio Bocca) ha tentato di rendere il proprio vissuto la testimonianza di esperienze collettive, con un valore universale intendo, ma solo ed esclusivamente la storia di un individuo, unico come tutti gli individui, lui, Massimo che perde “lentamente, gradualmente, inesorabilmente la vista“. Se i due precedenti potevano illuminare le vicende dell’Italia degli ultimi sessant’anni e anche, sì, far meglio comprendere l’opera del giornalista e del pensatore Fini, “Cieco” – si perdoni il cinismo dell’espressione – fa vedere fino in fondo la costante, sottile e onnipresente disperazione che ha accompagnato il Fini uomo. Disperazione nel senso etimologico, di assenza di speranza – e anche, qua e là, nel senso comune, l’angoscia che non ti molla neanche nei rapinosi attimi di felicità. La mancanza di vista, la miopia prima, il glaucoma poi, lo hanno tormentato in pratica da sempre. Un affezionato nemico interno, si direbbe, un ospite inquietante che, insegna il maestro Nietzsche, come ogni malattia produce anche effetti benefici. Nel suo caso, una tendenza all’introspezione psicologica, attentissima ai minimi movimenti altrui, interiori e, a breve distanza, pure esteriori, una sensibilità acutissima per il dettaglio, dono questo assai utile per centrare persone, luoghi e accadimenti grazie ai lampi dell’intuizione, una razionalità ipersviluppata e in continuo rovello, a compensare i deficit di presenza fisica che occhi feriti recano con sé. In queste pagine, in parole povere, si coglie per sensazioni, seguendo i suoi ricordi in ordine sparso, la sofferenza senza tregua che nessuno, neanche le persone a lui più vicine – sottolinea – ha mai veramente compreso. Intimista al massimo grado, questa cronaca della cecità ci restituisce un Massimo denudato completamente, con le difese totalmente abbassate, fragile e orgoglioso, profondo e infantile, bizzoso e commovente, scostante e meditabondo.

20230312 150812640 7426

Come guardare (ri-pardon) il suo io da dentro, riflesso in uno specchio di sincero, sfacciato, e perciò non irritante e non odioso, o almeno non troppo, narcisismo. Antonio Padellaro, recensendolo, ha scritto che l’ultimo libro di Fini è in sostanza l’ennesimo inno al suo ego, anche se fitto di gustosissimi aneddoti e reso amabile da certi momenti lirici, che sanno di sigarette solitarie fumate sugli scogli davanti al mare. È così. Ma la miscela di egotismo (non – attenzione – egoismo), mitezza e spavalderia che, secondo me, fanno del mio amico Massimo una persona ricca di contraddizioni, quindi umanamente interessante, oltre che la mente brillante che tutti conosciamo, a me ispirano un sentimento che potrebbe sembrare fuori posto: tenerezza. Era il 2007, l’anno in cui la mia città, Vicenza, viveva un raro momento di risveglio dall’abituale, democristiana sonnolenza grazie alla lotta contro la seconda base militare Usa, che ci ha privati dell’aeroporto civile, per quanto piccolo esso fosse, nonché di una vasta area libera. Massimo lo invitai assieme a Giulietto Chiesa per un dibattito sull’ennesimo abuso di sovranità nazionale perpetrato sulle nostre teste per far piacere al Pentagono. Lo conoscevo già da un anno, ma non bene. Sapevo dei suoi problemi di vista, ma non ne avevo afferrato la gravità. Dopo il convegno, affollatissimo, un successo, i due mattatori avevano dato una bella pettinata alle sciocchezze dei lacchè Usa, ci dirigevamo assieme agli altri organizzatori verso l’auto, per andare a casa di un collega che gentilmente l’aveva messa a disposizione per la cena. Sul marciapiede, Massimo mi camminava davanti. Nella mano destra teneva una bottiglia di vino che gli avevano regalato, con un’etichetta fatta apposta per propagandare il No Dal Molin, quella rigenerante, e perdente, ventata di giustificato antiamericanismo. A un certo momento sento un “crash“: non aveva percepito la presenza di un palo della luce alla sua destra e ci aveva fracassato sopra la boccia di rosso, finitogli per metà sui pantaloni e le scarpe. Proseguì come se nulla fosse.

Categorie:Cronaca, Editoriali, Interno

Tagged as: , ,