Le storie. Tra i profughi siriani che cercano di tornare nel loro Paese. Difficile distinguere le case distrutte dalla guerra o dal sisma. E i ragazzini diventano già adulti. Darat Izza (Nord della Siria). Hanno dormito in macchina, in tende, qualcuno a casa di un parente pregando Allah […]

(DI ALESSANDRO DI BATTISTA – Il Fatto Quotidiano) – Darat Izza (Nord della Siria). Hanno dormito in macchina, in tende, qualcuno a casa di un parente pregando Allah che almeno per quella notte il palazzo restasse in piedi. Hanno caricato le auto con tutto quello che sono riusciti a salvare o a recuperare tra le macerie. Qualche vestito, una coperta, una pentola. Poi hanno raggiunto la frontiera. Sono siriani e sono migliaia. Aspettano che le autorità turche aprano il confine con la Siria. Erdogan ha concesso tre mesi di permanenza in quello che un tempo era il loro Paese. Sono tutti profughi e oggi sono profughi terremotati. La città turca di Antakya ha accolto decine di migliaia di siriani negli ultimi anni. Uomini, donne e bambini fuggiti dalla guerra, dallo Stato islamico, dalle bombe russe o israeliane. Fuggiti da uno dei tanti conflitti per procura combattuti in nome dei diritti umani o di Dio ma che non hanno nulla a che fare né con i primi né con il secondo. Rifugiati in un paese straniero dove si sono guadagnati, con fatica, uno spazio di sopravvivenza. Per costruirsi una casa, quella stessa casa crollata in pochi istanti, hanno lavorato sodo. Anni e anni nei campi a raccogliere cotone, nocciole, olive, quel che si produce nella provincia turca di Hatay, una delle più colpite dal terremoto dello scorso 6 febbraio. Il tutto per mettere da parte i soldi con i quali costruirsi una casa. Una casa dove sono nati i loro figli, una casa che oggi non esiste più, esattamente come non esiste più la casa che hanno lasciato, anni fa, in Siria. Ho parlato con alcuni di loro al confine siriano. Neppure hanno forza o tempo per piangere i morti. Hanno scavato per giorni interi e ora vogliono solo rientrare in Siria. C’è chi andrà da un parente, chi cercherà una tenda. I morti vanno dimenticati in fretta, c’è da pensare ai vivi. Ai bambini che non comprendono quel che sta accadendo. Che si domandano dove sia la loro casa, dove siano i loro giocattoli o dove sia finita la mamma o il papà o il fratellino. Non ho mai visto nulla di simile. L’apocalisse, non mi viene in mente nessun altro termine. Supero il confine siriano a piedi. Accanto a me due veicoli, il primo è un minibus pieno zeppo di vivi che attraversano la frontiera, il secondo un camioncino colmo di cadaveri estratti dalle macerie, messi in sacchi neri con scritto un nome e che vanno portati in Siria per esser seppelliti. Al di là del confine sventola una grande bandiera dei ribelli siriani. Sfondo bianco con su scritto in arabo “Non c’è Dio al di fuori di Allah e Maometto è il suo messaggero”. Il nord della Siria è ancora sotto il controllo dei ribelli che godono del sostegno di Ankara. Si paga in türk lirası d’altro canto e nei check-point dell’ESL (Esercito della Siria Libera) a volte sventola la bandiera turca. Nei campi profughi del nord della Siria, negli ultimi dieci anni, sono arrivate centinaia di migliaia di persone da Damasco, Aleppo o Homs. Siriani ovviamente, ma anche curdi, palestinesi, iracheni. Un tempo la Siria era un luogo più sicuro. Il Paese per decenni ha ospitato persone in fuga dalle guerre di invasione mascherate da missioni di pace – come quella in Iraq – e ha accolto i palestinesi cacciati dalle loro terre. Poi la guerra è arrivata anche in Siria costringendo i profughi a trovare luoghi teoricamente più sicuri.
Ad Atma, dieci anni fa, non c’era praticamente nulla. Oggi è uno dei campi più affollati della Siria del nord. Ci vivono migliaia di persone in condizioni precarie, nel bel mezzo di una guerra, con servizi igienici scadenti, costretti ad affrontare la malnutrizione, la povertà, il Covid. Sono anni che resistono a tutto questo. Poi è arrivato il terremoto.
La città di Jindires è completamente distrutta. Sembra Dresda dopo la Seconda guerra mondiale. I militari dell’ESL armati di kalashnikov presidiano gli incroci delle strade del centro per evitare sciacallaggi tra le macerie. Si scava ancora nella speranza di trovare qualche sopravvissuto e si spera che le scosse siano terminate. Così non è. Tra due palazzi distrutti c’è una piccola panetteria che lavora. La vita deve andare avanti e chi vive ha diritto al pane arabo appena sfornato. Ad Afrin, a pochi chilometri da Jindiris, negli ultimi anni si sono combattute battaglie sanguinose. Nel 2018 l’esercito turco insieme ai ribelli siriani sferrò un attacco durissimo alle milizie curde. C’è chi sopravvisse allora ma non è sopravvissuto al terremoto.
A Darat Izza, altra cittadina del nord della Siria, è difficile distinguere le case distrutte da una bomba da quelle distrutte dal sisma. Sulle prime a volte vedi crescere un po’ d’erba, o magari un fiore. Su una collina alla periferia di Darat Izza, dove fino ad alcuni mesi fa arrivavano i malati di Covid oggi arrivano i terremotati alla ricerca di una sistemazione. Sono qui con l’ABSPP (Associazione Benefica di Solidarietà con il Popolo Palestinese). Abbiamo portato materassi, coperte, pacchi alimentari e tende. Le tende non bastano. Ogni tenda, non appena montata, viene immediatamente occupata e inizia a esser vissuta. Qui sanno che probabilmente per anni quella tenda sarà la loro casa. Le storie sono tremende e ascoltarle è come ascoltare i racconti dei dannati della Divina Commedia. Qamar ha otto anni ed è nata ad Antakya, in Turchia, dove stava ricevendo cure per un tumore. Ora vive in tenda a Darat Izza, in Siria, perché la sua casa non esiste più come a oggi, neppure la possibilità di proseguire le cure. Mohammed è un ragazzo di undici anni anche se sembra un adulto. Prende in braccio suo fratellino, lo fa smetter di piangere, lo aiuta a mangiare un dolce. È l’unico fratello che gli è rimasto. Gli altri due sono morti sotto le macerie. Zacaria è il “contatto” che ci è venuto a prendere all’aeroporto di Hatay per portarci al confine siriano. La sera del 6 febbraio era ad Ankara e si è salvato. Sua moglie era ad Antakya ed è morta. Non versa una lacrima. Non ha tempo. Sta aiutando una ventina di parenti rimasti senza casa e fa avanti e indietro con la macchina tra Antakya e il confine siriano per portare famiglie intere alla ricerca dei parenti lasciati anni fa in Siria. Per raggiungere la frontiera si passa davanti al “cimitero dei numeri”. Qui, ogni giorno, vengono sepolte decine di persone che non sono state riconosciute. Si tratta per lo più di profughi siriani. I sopravvissuti possono riconoscere i morti, ma se a morire sono famiglie intere non c’è nessuno che possa riconoscere i corpi. E i corpi vanno seppelliti in fretta. I morti sono troppi. A oggi il terremoto ha ucciso quasi 50.000 persone tra Turchia e Siria.
“Non abbiamo più nulla” mi dice una donna a Darat Izza, “ma almeno siamo vivi grazie ad Allah”. Allah è ovunque, sulle bandiere dei ribelli, sugli anelli degli uomini, nelle esclamazioni. Nelle preghiere dei sopravvissuti e sulle tombe dei morti. Nella storia della regione. Una storia indissolubilmente legata alla religione, non solo quella musulmana. Antiochia di Siria, l’odierna Antakya, venne fondata da uno dei più stretti generali di Alessandro Magno. Poi Pompeo conquistò la regione che divenne parte della provincia romana di Siria. Poi arrivò il cristianesimo. Secondo la tradizione, furono Pietro e Paolo a fondare la Chiesa di Antiochia. Subito dopo il “cimitero dei numeri” c’è il bivio per la Chiesa di San Pietro, un grotta scavata nella roccia utilizzata da una delle prime comunità cristiane. Poi arrivarono i bizantini, i sasanidi, poi arabi, crociati e ancora arabi. Guerre, assedi e terremoti. Il terremoto del 115 distrusse l’Antiochia romana, quello del 526 l’Antiochia bizantina. Quello del 6 febbraio scorso ha demolito una città abitata anche da profughi ai quali erano rimaste solo due cose: i sogni e Dio. Gente che sogna ce n’è ancora. I bambini non smettono di farlo. Mentre Dio pare aver abbandonato ormai da anni questa martoriata terra.
Categorie:Alessandro Di Battista, Cronaca, Interno, Politica
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