Il leader del Carroccio ha costruito il partito intorno a sé. A immagine sua e del popolo che dice d’incarnare. Ma sconfitte elettorali e malumori interni rivelano che il capo è all’inizio della fine

(di Simone Alliva – lespresso.it) – Cauto, lento, la voce impastata e vagamente dolente, Matteo Salvini a “Quarta Repubblica” su Rete 4 commenta il tracollo della Lega in Abruzzo. Gli occhi stanchi, un compito mandato a memoria come fosse la punizione di uno scolaro trovato impreparato. «Certo, avevamo preso molti più voti nel 2019. C’è stato di mezzo il governo di Mario Draghi con Pd e 5 Stelle che sicuramente alla Lega e a me bene non hanno fatto. Il Covid, il lockdown, il green pass, Roberto Speranza ministro della Salute». Non c’è niente di cui vantarsi in queste settimane per il segretario del Carroccio, nessun miracolo da annunciare. Da mesi cammina lungo il crinale sottile che separa i malumori ormai plateali del suo stesso partito dai malumori dei suoi alleati di governo. È una questione di tempo, dicono in via Bellerio, la resa dei conti è all’orizzonte. Intanto il malcontento fa un baccano tremendo. Saltano pezzi, si scoperchiano antichi risentimenti. Dimissioni, rimozioni.

In Veneto, Toni Da Re (all’anagrafe Gianantonio, ma nessuno lo chiama così), eurodeputato con una lunga lista di incarichi nel partito, è stato espulso nel corso del direttivo regionale dopo 42 anni di militanza: aveva dato del «cretino» al segretario dopo avere visto un sondaggio che dava la Lega in caduta libera al 5%. Paolo Grimoldi, ex deputato leghista, ora parte del Comitato Nord di Umberto Bossi, fa il dissidente e raccoglie applausi partecipando alle feste della Lega al Nord, dove spara a zero su Salvini. Giuseppe Leoni, 77 anni, deputato ed eurodeputato per sei legislature della Lega, di cui è fondatore, dà semplicemente del «fascista» al segretario. E poi c’è quel sondaggio interno, voluto dallo stesso vicepremier, che dice che senza il marchio Salvini la Lega potrebbe crescere di almeno due punti. Siamo solo all’inizio, si direbbe.

«Questo è il capolinea del salvinismo ma non è ancora la fine», spiega Massimiliano Panarari, professore di Sociologia della comunicazione all’Università degli Studi di Modena e Reggio-Emilia: «La Lega è un partito cesarista e, prima di accantonare il capo, il processo da percorrere è complesso e non lineare. Ricordiamo che Salvini controlla il partito e non vedo un’opposizione strutturata che lo sfida apertamente. Ci sono, però, prese di posizione pubbliche che confermano una richiesta molto solida: il ritorno della Lega come partito macro-regionale delle Regioni settentrionali in cui resistono ancora le tradizioni leghiste della prima ora. Durante quella breve fiammata di ascesa che coincide con il successo della Lega alle Europee, Salvini non è riuscito a costruire un consenso stabile in tutte le altre Regioni. Succede. La sindrome di onnipotenza dei leader populisti può fare brutti scherzi. Ma Salvini ci è sprofondato. Come in tutti i partiti personali, il confronto politico interno è stato sostituito da yes-women e yes-men. Con un effetto distonico di allontanamento della realtà. A questo si unisce una linea politica ondivaga, costruita sulla polemica del giorno, che non riesce a creare un’agenda».

È la strategia di nazionalizzazione della Lega il più grande fallimento, spiega il politologo e professore nel dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università degli Studi di Bologna, Piero Ignazi: «Perfettamente riuscita nel 2019 con le Europee, poi costretta a una battuta di arresto con il momento Papeete e il governo Draghi». Ma non dovrebbero essere le Regionali in Abruzzo o in Molise a turbare il Carroccio: «Il problema è quello che succede con le Europee nelle Regioni governate dalla Lega, sarà quella la prova del nove. Se lì Salvini resiste su percentuali accettabili e soprattutto mantiene l’elettorato, può considerarsi salvo. Ricordiamoci che durante le elezioni politiche Fratelli d’Italia ha superato la Lega in Veneto, doppiandola in tutti i collegi. Una possibile débâcle potrebbe concretizzare lo scontro tra lui e Luca Zaia, che negli ultimi mesi ha preso posizioni che lo proiettano decisamente sul campo nazionale. Negli anni la politica di Salvini si è radicalizzata, ha coltivato relazioni pericolose con frange estremiste di destra. Si potrebbe profilare uno scontro interessante tra i due: uno faceva i comizi con il rosario e l’altro favorevole all’eutanasia, due mondi totalmente opposti». Anche per Roberto D’Alimonte, politologo e docente alla Luiss, le Europee fanno da banco di prova delle capacità di tenere la rotta del partito: «Salvini ha fatto un’operazione molto difficile; ha preso in mano un partito che noi politologi definiamo etnoregionalista e ha cercato di trasfigurarlo in un partito nazionale. Un successo effimero. Ha un partito che non è primo partito al Nord, che al Sud non ha sfondato e in più l’aver spostato la Lega verso destra ha dato la possibilità a Forza Italia di sopravvivere dopo Silvio Berlusconi. Il progetto è fallito su tutta la linea. Però la Lega ha ancora l’8% e Salvini controlla i gruppi parlamentari, la macchina del partito. Come dicono negli Usa: “You can’t beat somebody with nobody”. Non si può battere qualcuno con nessuno. Ci dev’essere qualcuno che lo sfidi a viso aperto. Senza questo “qualcuno” fino alle Europee non succederà nulla».

«Oggi Salvini è un leader populista senza popolo», sentenzia Nadia Urbinati, politologa italiana naturalizzata statunitense, docente di Scienze politiche alla Columbia University di New York: «Il leader populista vive della forza di rappresentare sé stesso come colui che incorpora il popolo; quando si erode il numero di persone che può identificare come popolo, bisogna chiedersi: a chi parla? Se la platea si restringe è un popolino. Salvini è costretto a vincere, non può permettersi il lusso di perdere. E invece sistematicamente perde. Oggi Fratelli d’Italia dà le carte e gli altri cercano di ritagliarsi uno spazio. Un partito come Forza Italia può fare questo gioco perché è liberale e conservatore, sa dove andare, conosce i suoi elettori. Salvini ha costruito la Lega intorno a sé».