(di Marcello Veneziani) – Siamo tutti contenti che l’Unesco abbia riconosciuto la cucina italiana “patrimonio immateriale dell’umanità”. Riconoscimento bello e meritato, e giustificata è l’euforia del governo italiano e di tutta la filiera alimentare italiana. Magari con qualche eccesso di vanagloria e con qualche eccesso nell’appropriarsi il merito, come quel Cavaliere enciclopedico di Gioacchino Belli che diceva nei Sonetti romaneschi: “Non faccio per vantarmi ma oggi è una bellissima giornata”. Vanterie a parte, il riconoscimento è giusto e importante. Sarebbe facile ironizzare sul patriottismo cacio e pepe degli italiani maccheronici e dei seguaci governativi di Dio pasta e famiglia. La cucina è un’eccellenza italiana, ne scrisse un elogio in un pamphlet dedicato ai Maccheroni perfino lo scettico Giuseppe Prezzolini…

Avrei semmai qualcosa da obbiettare sulla definizione di patrimonio “immateriale”: se c’è una cosa che è concreta, materiale, commestibile e gustosa ai sensi, questa è la cucina, che non è un’idea platonica ma un piatto, una tavola, una pietanza. E se qualcuno dice che in realtà il premio va all’ars culinaria italiana, e dunque alla creatività e alle qualità “immateriali” di chi ha sapienza gastronomica, torno a ricordare che la cucina è comunque un’esperienza in cui c’è forma e materia, per dirla con Aristotele, ovvero c’è il tocco immateriale e c’è l’ingrediente, la pianta, il frutto, il cereale, perfino l’acqua e le nostre spezie; ci sono si, capacità, fantasia, inventiva e lavorazione ma ci sono pure i prodotti della natura, solidi e liquidi, qualità delle materie prime, delle nostre campagne, dei nostri orti, vigneti e granai, nonostante tutte le minacciose sofisticazioni e le tante importazioni, anche semiclandestine, di prodotti venuti ormai da altri paesi.

In realtà tutte le cose buone e belle sono sempre l’incrocio di un’arte e un elemento fisico, di uno sguardo e di un oggetto che si guarda, c’è un’idea ma c’è anche la realtà, e poi c’è il sole, c’è l’aria, c’è il mare e c’è la terra.

Ma non è di questo aspetto filosofico che vorrei parlarvi bensì di un’altra cosa che è un po’ il rovescio della buona notizia: la cucina in Italia è un nostro vero motivo di fierezza, è un grande piacere e una magnifica occasione di convivialità e di piacere condiviso ma è anche un vizio, uno stereotipo, una malattia, un’ossessione. Siamo sommersi da programmi sulla cucina, da gare gastronomiche, da ricette e da consigli per la cucina. E spesso quando siamo a tavola non facciamo che parlare di piatti, cucina, ristoranti, leccornie e segreti culinari. È come se pranzassimo e cenassimo al quadrato: mangiamo e insieme parliamo del mangiare. Ci sono città d’arte e di storia che vedono i loro centri ridotti a mangerie, mordi e fuggi, magna e ingozza, a tutte le ore; strade e piazze invase da trattorie, fast food, pizzerie, kebab, ristoranti. Pensate allo street food e agli effetti devastanti sul fisico degli italiani: capisco che gli abusi di cucina facciano lavorare non solo le filiere alimentari ma anche i loro contraccettivi, ossia le diete e i dietologi, le palestre e le industrie farmaceutiche per parare i colpi degli abusi alimentari. Danni che si aggiungono a danni, rimedi che si sommano a eccessi, e come i piaceri di oggi si scontano domani anche i farmaci contro gli abusi alimentari spesso rimediano alle situazioni immediate ma procurano danni più seri nel tempo.

Non sono solo rose e fiori la cucina e la sua passione: ci sono vistosi effetti collaterali, sgradevoli controindicazioni, perfino malattie di massa, allergie, intolleranze alimentari, diabete, e varie altre insidie che si celano nel benessere e nel piacere della tavola. I longevi e i sani mangiano poco, non dimentichiamolo; se il cibo è gioia, il digiuno è beatitudine.

Insomma la tavola è sempre benedetta, ma reca con sé oltre a tante cose buone e piacevoli anche rischi, abusi e patologie: non esageriamo con l’apologia della cucina. E parliamo d’altro quando stiamo a tavola. Vero è che i peggiori mali della gastronomia colpiscono di solito il cibo pessimo e veloce, i prodotti industriali, il mangiar male che non appartiene alla tradizione gastronomica italiana e in particolare alla cucina povera, che era industriosa ma non nociva, almeno in linea generale. È quando il pranzare degrada in “mettere qualcosa sullo stomaco”, trangugiare in fretta, riempirsi di “schifezze” come noi stessi diciamo mentre le ingurgitiamo con distratta avidità.

La cucina che fa più male è quella separata dalla tavola, dal convivio, e dunque dallo stile di una famiglia riunita o una comitiva di amici e conoscenti intorno a un desco. È in quel mangiarsi addosso, spararsi cofane o barconi esorbitanti, in forma di panini, strapieni di formaggi, salumi, salse e robe varie.
La cucina italiana, quella buona e vera, è il contrario e richiede tempi più lunghi, non solo nelle masticazioni ma anche perché conversando si guadagna tempo anziché perderlo e si dà la possibilità che la percezione di sazietà giunga al cervello e freni il furioso ingozzarsi di cibi.

La vera, buona, sana cucina italiana intreccia cibi e affetti, annoda legami e pietanze, conversazioni e portate. Il sottinteso è la casa, il calore domestico, o comunque il luogo accogliente, ospitale, comunitario dove sentirsi a proprio agio.

A tutto questo si unisce il cosiddetto valore identitario della cucina italiana. È vero: l’italianità o il “made in Italy” passa anche dalla cucina e dalla nostra passione mediterranea per la tavola; anche la cucina è civiltà. Anche qui, però, con l’identità passa pure la sua caricatura: quel popolo di pizzaioli e camerieri, la saga Italian spaghetti intorno ai vermicelli e ai maccaroni, le immagini classiche di Alberto Sordi e di Aldo Fabrizi alle prese con la pasta, o di Totò che in Miseria e nobiltà danza sulla tavola e si mette in tasca gli spaghetti, nell’euforia dell’abbondanza dopo tanta fame. Un materialismo crasso, plebeo. Ogni virtù coabita con la sua parodia: come non dobbiamo ignorare l’una, così non possiamo esagerare l’altra. A volte, ti prende lo sconforto quando l’identità italiana si riduce a pastasciutta e pummarola, a tarallucci e vino. Quel che è inaccettabile non è la nostra predilezione per la cucina ma la riduzione dell’italianità solo a quello, o poco più: noi siamo anche il paese che primeggia nelle bellezze d’arte, di cultura e d’ingegno, siamo un paese ricco di storia, d’invenzioni e di navigatori, di pensiero e umanità, di misericordia e di carattere, di grande letteratura e di bellezze naturali. Non possiamo ridurre tutto ai cuochi, ai commensali e alla bella tavola.

Perciò siamo felici di questo riconoscimento meritato e degli effetti pratici che potrà avere, oltre il prestigio e la buona fama; ma l’Italia è – o è stata, perlomeno – anche intelligenza e spirito, inteso come energia spirituale, forza di spirito e battuta di spirito. Diamine, non siamo solo sarti e cuochi.

Fatti non fummo…