
(Mario Tozzi – lastampa.it) – C’è un nuovo obiettivo climatico nel mirino dell’Unione Europea: ridurre le emissioni climalteranti del 90% entro il 2040. In realtà, più precisamente, c’è un accordo sul taglio fra il 66,2 e il 72,5% delle emissioni rispetto ai livelli del 1990 e un accordo sul contributo che viene determinato singolarmente a livello nazionale, in pratica il contributo europeo allo sforzo globale contro la crisi climatica, di cui verrà chiesto conto a Belém, in Brasile, nella prossima COP30. Si tratta di una resa, è bene dirlo da subito, rispetto agli ambiziosi obiettivi che l’UE si era data con la precedente maggioranza politica. Una resa ai Paesi che chiedevano di ammorbidire le posizioni del Vecchio Continente, quelli cui il Green Deal era maggiormente inviso, Polonia e Italia primi fra tutti (ma anche Francia). E una sconfitta per Spagna e Germania, che premevano per un limite inferiore più “forte” dell’intervallo previsto. Una sconfitta soprattutto per i figli e i nipoti di tutti noi, verrebbe da puntualizzare.
E siamo alle solite: compromessi al ribasso e mercanteggiamento sulla salute dei cittadini, sulla sicurezza rispetto ai rischi naturali e sull’ambiente, con la scusa che la sostenibilità economica viene prima di quella ambientale. I nostri governanti nazionali e continentali sembrano non aver compreso che la crisi agricola e economica attuale non dipende certo dal Green Deal, che ancora non è stato nemmeno attuato, ma dal Brown Deal dei decenni precedenti, che ha inquinato e pervaso ogni cosa. Non hanno capito che per garantire un livello, forse più basso, ma sicuramente più certo, delle attività produttive nell’immediato futuro saranno indispensabili misure di salvaguardia e di ripristino ambientale, prima fra tutte l’azzeramento delle emissioni climalteranti.
Ci si illude di poter continuare a vivacchiare garantendo i gruppi di potere legati a doppio filo ai combustibili fossili, invece che obbligarli a una riconversione energetica di cui, vivaddio, si dovrebbero accollare tutti i costi, riducendo gli spaventosi margini di profitto di oggi. Di più: li si continua a favorire indirettamente, o addirittura a foraggiare direttamente, con centinaia di milioni di dollari all’anno. Nel contempo sciacquandosi la bocca con termini come “sostenibilità”, un sostantivo di cui emerge continuamente la natura ambigua e contraddittoria. L’economia di libero mercato, l’unica che i sapiens praticano, non può essere la soluzione, ma è, anzi, parte del problema: in base a quale principio si dovrebbe sperare che chi ha maggiori privilegi vi rinunci per un bene comune di cui non frega niente a nessuno? E, infatti, ciò non accade, rimanendo la massimizzazione dei profitti l’unico comandamento di ogni corporation sotto ogni latitudine.
La questione è diventata penosa anche da un punto di vista culturale: si è arrivati a indicare come “nemici del popolo” i veicoli elettrici, la carne coltivata, i pannelli fotovoltaici e le pale eoliche, alla ricerca di scuse di ogni natura pur di renderli invisi alle persone. Invece di invadere ogni area industriale degradata e ogni tetto con i pannelli solari e piantare pale eoliche come non ci fosse un domani a largo delle coste, si discetta di come prendano fuoco facilmente le batterie al litio o quanto sia difficile reperire il silicio (!) per il fotovoltaico e che fine farà il prosciutto di Cinta senese con la carne “sintetica”. Per decenni ci siamo sciroppati ogni possibile veleno dei combustibili fossili, abbiamo ricoperto di una patina oleosa di idrocarburi ogni centimetro quadrato del pianeta, abbiamo respirato benzene e fatto finta di niente di fronte alla balla della benzina verde, e ora cerchiamo la pagliuzza nell’occhio delle rinnovabili, l’unica risposta immediatamente disponibile per ridurre le emissioni. In un mix di ignoranza, scarico di responsabilità e fiducia nella buona sorte che ritenevamo a torto fosse solo italico.
Umanamente comprensibile lo sfogo di Tozzi. L’Europa, in fatto di Green Deal, si è rimangiata la parola; questo è un fatto.
Tozzi parla di “compromesso al ribasso”, altri di “riequilibrio”. È questione di punti di vista, ma i fatti parlano chiaro: il problema ha due chiavi di lettura, economica e politica.
Economia: l’Europa ha promesso il Green Deal, ma non aveva né ha i mezzi per realizzarlo. La finanziarizzazione dell’economia e il tessuto produttivo basato su piccole e medie imprese ci hanno fatto perdere un treno chiamato sviluppo. Fare il Green Deal dipendendo dalle risorse altrui non è un problema di mercato libero o vincolato: è un problema di idee mancanti. Si promette senza spiegare il “come” si attuano quelle promesse.
Politica: spesso si agisce per consenso, senza valutare mezzi disponibili o conseguenze. Non è questione di colore politico: prima con Ursula von der Leyen si promuoveva il Green Deal senza preoccuparsi dell’attuazione; oggi, chi lo osteggia evidenzia l’impreparazione dell’Europa, proponendo di tornare indietro per non perdere competitività industriale (una perdita che arriverà comunque, per ragioni più complesse) quando il green deal è una delle migliori vie per uscire dall’impasse in cui ci troviamo.
I pannelli fotovoltaici e le pale eoliche offshore non sono il problema il problema è che sono prodotti altrove, non in Europa.
La realtà è dura: l’Europa deve scegliere tra agire con decisione o affrontare un declino inevitabile.
Trattare un problema strutturale come una congiuntura è il modo migliore per assicurarsi il fallimento.
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Tanto non esistono rinnovabili sufficienti per garantire il nostro ‘stile di vita’ e non solo, non è solo questione di energia, ma anche di materie prime.
Se l’UE cala le emissioni (e le HA calate negli ultimi decenni) ma la Cina, da cui l’UE prende gran parte della roba che consuma, le quadruplica, alla fine siamo ad un livello MAGGIORE di prima. Vedi l’articolo della Gabanelli di qualche giorno fa.
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