(di Marcello Veneziani) – Ma quando l’Intelligenza Artificiale prenderà il posto di molte attività che sono ancora nelle mani degli uomini, che ne sarà dei lavoratori? Diventeranno superflui, saranno prigionieri del tempo libero e schiavi dell’ozio? Scivoleranno in massa verso una forma di pensionamento anticipato, per la superfluità delle loro prestazioni, ridotti a soprammobili e accessori secondari? Camperanno con un reddito di sopravvivenza, versione depressiva e pietosa del reddito di cittadinanza?

Non c’è incontro pubblico o conversazione privata sugli effetti dell’Intelligenza Artificiale che non si areni su questo problema. Una volta sollevato, il problema resta sospeso nell’aria come un gas letale, minaccioso e inespugnabile. Alla fine ci salva dall’angoscia della sostituzione l’accogliente ombrello dell’oblio, la spugna della rimozione, la speranza di un errore di diagnosi, l’attesa di un fattore imprevisto e imponderabile, la mano santa degli dei. E soprattutto la consolazione che non accadrà domani, intanto continuiamo a vivere così, abbiamo ancora da fare nel frattempo: in fondo è la stessa elusione che adottiamo quando pensiamo alla morte: c’è ancora tempo, anche solo per pensarci. Dai, è ora di colazione.

Però io vorrei tornare alla domanda, spogliandola di ogni apprensione apocalittica e riproporla in termini più pratici, e più costruttivi: cosa non potrà essere sostituito dall’Intelligenza Artificiale, che mi ostino a ribattezzare Cervellone Artificiale, perché l’Intelligenza non è solo un risultato di operazioni neuro-cerebrali: l’Intelligenza è mente, anima e carattere, quindi sensibilità, emozione, intuizione, creatività, introspezione, esperienza vissuta. E non è solo memoria, che può essere replicata e immagazzinata in un cloud o un chip ma è anche ricordi, che attengono al cuore e alla selezione affettiva del passato. Scusate la digressione, torno alla domanda: cosa non potrà essere sostituito dalla cosiddetta intelligenza artificiale? L’uomo ha bisogno dell’uomo. Detta così è troppo vaga e incomprensibile, nella sua ineffabile generalità. Ma pensiamoci bene: mille strumenti sempre più preziosi, sempre più sofisticati, ci permettono di vivere meglio, ci sostengono, ci aiutano, ci curano perfino. Ma l’uomo ha bisogno dell’uomo e nessuno potrà sostituire quel fiato, quel corpo, quelle mani, quella voce, quella dedizione, quell’affetto, quell’amore, quell’attenzione, quel prendere l’iniziativa senza bisogno di ricevere un input automatico o meccanico. Anche per far nascere un altro uomo si possono usare le più avanzate tecniche di fecondazione artificiale, di manipolazione genetica, ma occorrerà comunque un seme, una scintilla umana. Omne vivum ex vivo, ossia “ogni essere vivente deriva da un altro essere vivente”. È il fondamento della biogenesi: la vita ha origine solo da altra vita preesistente, non può essere generata da materia non vivente. Il mistero della vita.

Traduciamolo in strategia globale del lavoro. In un mondo benestante e longevo, abitato da solitudini sempre più diffuse, in un mondo di anziani, con poche nascite e lunghe vecchiaie, il primo lavoro che non potrà mai fare un cervellone artificiale, un automa, è assistere un’altra persona, darle una mano, un paio d’occhi e d’orecchie per chi non vede e non sente bene, una mente più rapida e capace di usare i mezzi, la tecnica e l’hi-tech. Assistere come infermiere, come medico, come badante, governante o baby sitter, come accompagnatore nel senso proprio di far compagnia, come autista e aiutante nella vita e nelle nuove tecnologie, o perfino nella lettura; insomma come figlio, zia o nipote adottivo, su base professionale. Sarà quello, a mio parere, il vero, prezioso reddito di cittadinanza del futuro che si dovrà erogare: non una rendita di posizione a fondo perduto, un puro assegno di mantenimento ma un sostegno a fronte di una prestazione, dunque un sostegno reciproco – tu ti occupi di lui, in cambio ricevi un compenso – con l’impegno a prestare il proprio tempo, le proprie energie e le proprie capacità a vantaggio di persone che ne hanno bisogno: l’impegno ad accompagnare, magari previo corsi di preparazione e di formazione, le persone che hanno bisogno di assistenza e supporto, per ragioni di età, di salute, di inattitudine alla tecno-sfera, verso ogni altra dipendenza. Incluso il bisogno di compagnia per una società che vive e muore di solitudini.

Più in generale, il ruolo dell’umano resterà possibile anzi necessario dove non si può riprodurre tecnologicamente un rapporto, un luogo, un’opera d’arte, una persona, una situazione irripetibile.

Per tornare al tema del lavoro umano, si tratta di ridisegnare lo scenario lavorativo, di inventare nuove scuole di formazione che puntino non solo al sapere, all’agire e al fare tecnologico, ma all’importanza di stabilire un vero rapporto umano con le persone di cui ci si occupa. Non dunque un protocollo anonimo da seguire, valido per tutti, ma la capacità di entrare in empatia, in sintonia, di calarsi in ogni singolo caso, in ogni specifica, personale situazione.

Ogni grande riforma che propone un radicale cambiamento di prospettiva è vista sempre con un sorrisino ironico di compatimento, come se fosse velleitaria utopia, retorica da salotto, impresa impossibile a priori. E invece, se si vuole davvero che l’IA o meglio il Cervellone, resti un formidabile strumento governato dagli umani, e se si vuole compensare la crescita dell’automazione e della tecnica con un’accorta valorizzazione dell’umano, del lavoro e dei legami comunitari, occorre progettare un futuro bilanciato, in equilibrio tra le possibilità della tecnica e le possibilità dell’umano. A chi tocca questo compito di mettere a fuoco un progetto del genere? Direi a scienziati, pensatori, tecnici, legislatori, giuslavoristi e politici “umanisti”. Al di là del lodevole volontariato, bisogna pensare a qualcosa di professionalmente riconosciuto.

Sarà la prossima rivoluzione, dopo quella digitale, e sarà alla stesso tempo una controrivoluzione; ma non contro la tecnologia, semmai contro il fatalismo rassegnato a sottomettersi alla tecnologia, fino alla nostra scomparsa. C’è ancora vita intelligente su questo pianeta.