(MASSIMO CACCIARI – lastampa.it) – Il contesto generale in cui ha oggi luogo la contestazione da parte dei coltivatori europei delle politiche nazionali e dell’Unione per il settore è ben diverso rispetto a quello di precedenti, clamorose proteste. Non si tratta, in sostanza, di aiuti, sovvenzioni o più o meno motivate pressioni protezionistiche. Le istanze corporative, per quanto inevitabili, sono obbiettivamente in secondo piano rispetto a una prospettiva di trasformazione globale del comparto, trasformazione che assume un significato di rilievo non solo economico, ma politico, sociale e culturale. Su questo occorrerebbe riflettere e far ragionare, “bucando” se possibile la spessa coltre canzonettistica dell’Italia sanremese di questi giorni.
Ricerca scientifica e innovazione tecnologica stanno impattando sulla produzione agricola con una violenza analoga a quella che, tra anni’70 e’80, ha rivoluzionato il settore manifatturiero. L’agricoltura si trova, anzi, sul fronte delle sperimentazioni più avanzate e arrischiate. E occorre comprenderle sull’onda lunga del senso generale della Tecnica contemporanea: essa tende, per sua “natura”, a rendere “artificiale” ogni aspetto della nostra vita. Artificiale anche ciò di cui questa vita si alimenta. Come si creano desideri e bisogni, come si produce il consumo, così anche tutto ciò che si consuma. Artificiali erano prima i mezzi per moltiplicare la produzione di prodotti agricoli; ora lo diventano questi prodotti stessi. Dal laboratorio venivano fertilizzanti, ecc. , ora carne, formaggio, uova.
Come non capire il salto non solo produttivo, ma sociale e culturale che ciò comporta? Non sono in gioco soltanto migliaia di aziende agricole e di posti di lavoro. Ci troviamo all’interno di un processo, che nessuno sembra in grado neppure di frenare, in cui la produzione di una neo-natura standardizzata a livello globale domina tutte le forme della nostra vita. Un tale esito non ha più nulla di fantascientifico, esso è già iscritto anche nello sviluppo dell’Intelligenza Artificiale, come nelle possibilità di intervento nel patrimonio genetico. E come per l’Intelligenza Artificiale nessuno si preoccupa seriamente dell’organizzazione della nostra vita quando la sua presenza sarà onnipervasiva in tutti i settori produttivi e amministrativi, così nessuno oggi sa quali limiti stabilire per la manipolazione delle nostre stesse intelligenze! E nessuna autorità politica sembra volersi prendere cura delle conseguenze sulla nostra salute del cibo sintetico.
Come, d’altra parte, si potrebbero conoscere? Quali statistiche abbiamo su che cosa comporti l’ingestione prolungata di alimenti che sono puri prodotti di laboratorio? Possiamo augurarci che l’Intelligenza artificiale sia un partner così cortese da liberarci da ogni fatica – e (forse) potremo continuare a rifiutare trattamenti sul nostro genoma. Ma è difficile rifiutare di mangiare – e se a un certo punto tutta la catena alimentare divenisse più o meno artificiale? E se il costo dei suoi prodotti si abbassasse tanto da indurne un consumo di massa? Cosa ci dice la scienza a proposito? Non siamo noi coloro che la adorano (vedi stagione, tutt’altra che passata, della pandemia)? È forse oggi tutta bella schierata a proclamare che il cibo sintetico fa bene o, almeno, non fa male? Lo potrebbe seriamente, cioè scientificamente, in assenza di ogni preciso dato? E su quelli disponibili è tutta d’accordo? E, infine, se manca un tale plebiscitario accordo da parte di Madame la Scienza, come possono le autorità politiche consentire l’entrata sul mercato di questo pseudo-cibo?
Questa è la questione prima, davvero epocale, che solleva oggi il movimento degli agricoltori europei. Dovremmo essergli grato che lo faccia. E di invitarci a capire, insieme, chi regge questa trasformazione, quali sono i formidabili interessi economici che ne rappresentano i veri “sovrani”, ai quali obbediscono in misura sempre maggiore le autorità politiche. Non sono i produttori a regolare questo mercato e tantomeno i prezzi dei suoi prodotti. E neppure qualche anonimo algoritmo. Sono i grandi fondi finanziari detentori di quote rilevantissime delle grandi multinazionali dell’alimentazione, proprietari di immensi territori in tutto il mondo. È la finanza globale a reggere il timone, qui come altrove, come nel Big Pharma, come nel colossale mercato delle comunicazioni. Tra i diversi comparti, poi, gli intrecci si moltiplicano (Bill Gates è proprietario di sconfinati terreni agricoli) e i profitti ancora più rapidamente, senza che nessuna politica redistributiva funzioni più nei Paesi del democratico Occidente.
Anche gli assilli iper-burocratici e centralistici di Bruxelles in materia di regolazione delle produzioni dei diversi Paesi trovano in questo contesto una spiegazione. La standardizzazione è il primo passo alla universale “artificializzazione”. Più la norma è astratta e rigidamente vincolante, più è difficile seguirla per il produttore tradizionale e facile, invece, per chi opera con grandi mezzi e su larga scala. Stesso ragionamento vale per l’occupazione per altro uso di terreni agricoli. Meno spazio vi sarà nei nostri Paesi per l’agricoltura, più sarà necessario ricorrere all’industria del cibo sintetico. Anche in questo campo domina l’assenza di ogni visione d’insieme. Il fallimento delle politiche energetiche di questo Paese lo si fa pagare all’agricoltore. Mal comune mezzo gaudio? E intanto ci giochiamo un settore da quasi 600 miliardi all’anno (in Europa, oltre 70 da noi) e con enormi potenzialità di sviluppo. Non dobbiamo fermarci, nessun luddismo. Ma forse è augurabile procedere ragionando.
“Le rivoluzioni che la politica non governa”
hahahaha
sono governate dalle oligarchie
Cacciarone sei rimasto al secolo scorso!!!
Come d’abitudine si avventura in ambienti che non conosce.
Gli agricoltori non hanno mai avuto paura delle innovazioni, ma qui si tratta di REDDITO RUBATO.
Rubato dalla speculazione finanziaria che si basa di montagne gigantesche di carta, rubato dalle lobby delle GDO, dalla concorrenza sleale degli accordi internazionali, dalle oligarchie delle politiche folli che governa Bruxelles, dalla guerra in Ucrania che ha fatto esplodere i prezzi delle materie prime e dell’energia, dalla incompetenza della maggior parte dei politici e dell’informazione riguardo il mondo agricolo.
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In termini energetici, per produrre un chilogrammo di carne, si stima che siano necessari 44 megajoule (MJ) di energia. Tuttavia, una volta che quel chilogrammo di carne è nel piatto, fornisce energia per circa 4,3 – 5 MJ1. Questo significa che gran parte dell’energia impiegata nella produzione della carne viene dissipata durante la digestione o utilizzata per mantenere le funzioni vitali, e solo una piccola percentuale raggiunge effettivamente il nostro organismo.
È interessante notare che coltivare un chilogrammo di cereali richiede solo un centesimo dell’acqua necessaria per produrre un chilogrammo di proteine animali. Ad esempio, per produrre un chilogrammo di carne di pollo, sono necessari 3.500 litri d’acqua, mentre per un chilogrammo di carne bovina, si arriva a utilizzare da 25.000 a 100.000 litri d’acqua. D’altra parte, coltivare un chilogrammo di cereali richiede solo una frazione di questa quantità di acqua.
In sintesi, la produzione di proteine animali richiede notevoli risorse idriche ed energetiche, mentre i cibi vegetali, come frutta e verdura, sono più efficienti in termini di utilizzo delle risorse naturali. Considerando l’impatto ambientale, la scelta di una dieta bilanciata che includa anche fonti vegetali di proteine può contribuire a ridurre l’uso eccessivo di risorse e a promuovere la sostenibilità alimentare.
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Fino agli anni 50-60, nelle famiglie si mangiava la carne una/due volte a settimana, poi è diventata elemento quotidiano, scendendo naturalmente di qualità e pompata a antibiotici o “gonfiata” a acqua. Meglio i legumi nostrani e un supporto di fibre.
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