In un crescendo di potere senza limiti arriva la “gaffe” della premier su Draghi

(di Francesco Bei – repubblica.it) – Nel silenzio generale, nella distrazione di un’opinione pubblica giustamente angosciata per le due guerre in corso e per l’incertezza economica sul futuro, il governo sta procedendo alla sua riforma costituzionale. Che non è, attenzione, la riforma Casellati sull’elezione diretta del premier, la quale chissà se vedrà mai la luce (non esiste praticamente un solo costituzionalista in Italia che non l’abbia già impallinata). La vera riforma costituzionale è già stata fatta, seppur senza proclami e surrettiziamente: è l’abolizione di quel poco di Parlamento rimasto e l’instaurazione della Repubblica presidenziale di palazzo Chigi. Riforma di un solo articolo: decide tutto Giorgia Meloni e tanti saluti. Meloni “Wonder woman” che ieri, facendo la ruota allo specchio come i pavoni, si è paragonata a Mario Draghi e l’ha trovato inutile, uno che si faceva le foto con i leader e “non portava a casa niente”. Una spirale di onnipotenza celebrata dai giornali della destra e dal Tg unico Rai-Mediaset (con la solitaria eccezione del Tg3), mentre i parlamentari di Fratelli d’Italia cantano tutti in coro “meno male che Giorgia c’è”. Ma sull’attacco a Draghi ci torneremo tra poco.

Di questa riforma presidenzialista “de facto” si stanno vedendo i frutti in questi giorni in cui le Camere, ridotte a camerette, sono (anzi dovrebbero) essere impegnate nell’esame della legge più importante dell’anno, quella di Bilancio. Il provvedimento che stabilisce il dare e l’avere, che decide gli investimenti, i tagli, il sociale, le pensioni, le tasse, la sanità, le grandi e piccole opere, la scuola. Tutto, insomma.

Con un’innovazione pericolosa, perché avvenuta al di fuori di ogni regola scritta, il governo ha già deciso che la manovra non è emendabile, nemmeno da parte dei parlamentari della sua stessa maggioranza. Così è se vi pare, prendere o lasciare. Tanto che al 12 di Dicembre ancora non si conosce il contenuto del maxi emendamento che il governo sta cucinando nelle sue segrete stanze e si intuisce, dietro la porta, solo il rumore attutito di uno scontro furioso sulla distribuzione delle poche risorse disponibili. Si capisce che non ci sono i soldi promessi a Matteo Salvini per il ponte sullo Stretto e il vicepremier sta facendo il diavolo a quattro per non essere sconfessato nelle sue promesse. Si comprende anche che si sta consumando una battaglia sanguinosa sul Superbonus, tanto che ieri i relatori della Manovra, Guido Quintino Liris (Fratelli d’Italia ) e Dario Damiani (Forza Italia) sono stati seccamente smentiti dal ministero dell’Economia, poco dopo aver accennato a un intervento in extremis per prorogare in qualche modo la misura. Ma tutto questo lo sappiamo, appunto, solo grazie ai retroscena dei giornalisti che raccolgono gli spifferi del Parlamento. Perché le Camere, nel frattempo, attendono in silenzio che cali dall’alto Mosè-Meloni con le tavole della legge. La logica è quella di un governo onnipotente, ormai dominus unico della scena.

Con una chiarezza al limite della brutalità, il neo presidente della Corte costituzionale, Augusto Barbera, ha detto ieri quel che il capo dello Stato si è sforzato in questi mesi di far capire al governo, seppure sottovoce: “I maxi emendamenti sono obbrobriosi”. Ha detto proprio così: obbrobriosi. Scritti mettendo insieme “progettini” che i parlamentari “non riescono a conoscere perché sono presentati all’ultimo minuto”. Ora, è pur vero che quella dei maxi emendamenti e dell’eccesso di voti di fiducia e decreti legge è una pratica a cui hanno volentieri fatto ricorso tutti i governi, anche quelli tecnici o di centrosinistra. Ma con questo governo di destra-centro una prassi deplorevole è diventata regola generale, senza eccezioni. Arrivando al punto che la Camera dei deputati, nel silenzio del suo presidente (che pure, da leghista, potrebbe una volta tanto non intrupparsi nel coro “meno male che Giorgia c’è”), esaminerà in prima lettura la Finanziaria tra Natale e Capodanno, probabilmente il 29 dicembre, a poche ore dall’esercizio provvisorio. Una prepotenza mai vista, letteralmente, nella storia parlamentare italiana.

Ma tutto passa così, senza più limiti e freni. Come i decreti legge, ormai la via ordinaria per la legislazione, che hanno completamente esautorato le Camere. Uno studio, presentato ieri dall’associazione degli ex parlamentari, dimostra in maniera lampante questo svuotamento del Parlamento a favore di un super-governo onnipotente. I decreti legge del governo sono passati da una media di 1,1 al mese della XV legislatura (quella di Prodi e Berlusconi, per capirci) alla cifra monstre di 2,6 al mese nella legislatura in corso, più che raddoppiando.

Il socialista Lelio Basso, che ce l’aveva con i democristiani, parlò di un “golpe bianco” perché il governo centrista di allora aveva osato presentare tre decreti legge in un anno. Che direbbe oggi, quando Meloni solo a novembre ne ha sfornati otto?

In questo crescendo di comando senza limiti e potere senza contrappesi arriva la battuta infelice, chissà se voluta o scappata di bocca, su Mario Draghi. Una “gaffe” che è difficile non mettere in relazione allo scoop di Repubblica di tre giorni fa, quando scrivemmo che c’è un’interlocuzione riservata in corso, tra Parigi e Berlino, per puntare su Draghi come prossimo presidente della Commissione europea. Una manovra con molte ragioni, come ha spiegato Claudio Tito, che lascerebbe Meloni in una posizione difficile, quasi obbligandola a dare il suo assenso. A meno che… A meno che la figura di Draghi non finisca nel tritacarne della polemica politica, “sporcata” e alla fine inservibile. Tanto, nell’Italia immemore, chi ricorda più l’uomo che ha salvato l’euro (e la Nazione, come si usa dire oggi), che ha vaccinato milioni di cittadini, che ha schierato il Paese da subito tra i difensori dell’Ucraina, che ha costretto l’Europa a negoziare insieme sull’acquisto delle dosi, che ha scritto in poche settimane il Pnrr. Tutti devono dimenticare e imparare a cantare nel coro nel Giorgia. Guai a chi stecca.