Nonostante lo pianifichi da almeno sei mesi, nonostante il suo indubbio professionismo politico, Giorgia Meloni giunge impreparata al suo primo 25 aprile. Troppo forti sono le pulsioni identitarie che, dopo la vittoria […]

(DI GAD LERNER – Il Fatto Quotidiano) – Nonostante lo pianifichi da almeno sei mesi, nonostante il suo indubbio professionismo politico, Giorgia Meloni giunge impreparata al suo primo 25 aprile. Troppo forti sono le pulsioni identitarie che, dopo la vittoria elettorale, inorgogliscono la sua generazione Tolkien e quelle della destra protomussoliniana che l’hanno preceduta, riponendo in lei le loro varie aspettative di rivincita. Se Meloni, vista l’età, può legittimamente aspirare a una decennale carriera da statista, prevale nei vecchi come La Russa l’urgenza di togliersi delle soddisfazioni. Poco importa se il gioco delle parti – un presidente del Senato dedito a sfidare la tradizione antifascista, la premier ansiosa di limitare al minimo le “sgrammaticature istituzionali” – sia studiato o improvvisato. I due cofondatori di Fratelli d’Italia mantengono un tratto ideologico comune da cui non vogliono e non possono separarsi.
Se così non fosse Meloni, attentissima utilizzatrice politica degli anniversari, avrebbe sfruttato diversamente la ribalta offertale il 25 ottobre 2022 alla Camera dal suo discorso programmatico d’insediamento. Giungeva, manco farlo apposta, tre giorni prima del centenario della marcia su Roma. Quale occasione più solenne per scandire parole definitive di ripudio del fascismo nella stessa aula di Montecitorio che il duce aveva definito “sorda e grigia”? Invece l’occasione non fu colta, e chissà che un giorno Meloni abbia di che pentirsene. Irta di ostacoli è, difatti, la strategia alternativa pur meticolosamente studiata dalla leader della destra italiana. Sempre col ricorso agli anniversari, Meloni si è data l’obiettivo prioritario di conquistare la benevolenza della comunità ebraica, ponendo l’accento sull’orrore delle leggi razziali e sulla necessità di vigilare contro l’antisemitismo. È la maniera indiretta con cui da mezzo secolo i post-fascisti veicolano il messaggio: “Non siamo più quelli di prima”. Meloni, a differenza di Gianfranco Fini, enfatizza, sì, la vergogna delle leggi razziali, stando sempre attenta però a disgiungerla da qualsivoglia riflessione storica sul fascismo (quasi mai nominato). Non vuole correre il rischio di essere accusata di tradimento dalla sua base militante. Il ventennio della dittatura che iniettando il virus del nazionalismo professava il culto “Dio, Patria, Famiglia” viene quindi edulcorato, messo nel ripostiglio. L’obiettivo? Pervenire a una non meglio precisata “pacificazione nazionale” conservando lo scheletro nell’armadio. Come? Esercitando una sistematica deviazione di sguardo sulle vicende novecentesche: nonostante l’evidente sproporzione, quando si traccia un bilancio dell’antifascismo la destra rivendica la sua persistente ostilità mettendo sotto i riflettori le violenze degli anni Settanta e lasciando in ombra la transizione epocale degli anni Quaranta, costata decine di migliaia di morti. Cioè la Resistenza, senza la quale neanche la supremazia militare degli Alleati avrebbe recato all’Italia conquiste quali il diritto di voto alle donne, la Repubblica, l’Assemblea costituente.
Ma tant’è. Tornata per la prima volta dal dopoguerra partito di maggioranza relativa, la destra persegue un disegno di egemonia culturale necessariamente meno rozzo di quello esibito da Marcello Dell’Utri (e tanti altri) nel 2005, quando propose l’abolizione della festività del 25 aprile. Deve riconoscere che i partigiani combattevano dalla parte della ragione ma al tempo stesso ne sminuisce il ruolo nella nascita della nostra democrazia. Qui, in polemica con la memoria partigiana, prende forma il disegno di “una pacificazione nazionale che la destra democratica italiana, più di ogni altro, da sempre auspica”. Parole di Giorgia Meloni, alla Camera, il 25 ottobre scorso. Pronunciate subito dopo aver ricordato “quando nel nome dell’antifascismo militante ragazzi innocenti venivano uccisi a colpi di chiave inglese”.
“Da allora – proseguiva Meloni – la comunità politica da cui provengo ha compiuto sempre passi in avanti verso una piena e consapevole storicizzazione del Novecento”. Non perderemo tempo a ricordare quanto omissiva sia stata tale “storicizzazione” perché altro è il tema che sta più a cuore alla vincitrice Meloni, anche se la mette in difficoltà quando si tratta di celebrare l’unità antifascista che condusse l’Italia dalla Resistenza alla Liberazione. Lo dice lei stessa subito dopo, motivando l’ormai celebre autodefinizione di underdog: “Provengo da un’area culturale che è stata spesso confinata ai margini della Repubblica”. Questo è il punto. E qui la premier ci conceda un pizzico di paternalismo (oltre che di ironia sull’evocazione del “confino” che mal si addice alla sua parte politica): si è mai chiesta perché la destra post-fascista che lungamente ha continuato a proclamarsi “antisistema”, compresi i tempi della sua militanza giovanile, sia stata tenuta a distanza dalle forze aderenti all’arco costituzionale?
La retorica tipicamente missina del “partito dei vinti” rimane l’imprinting del sentimento comunitario che Giorgia Meloni rivendica con forza. Anche ora che è giunto al potere, il “partito dei vinti” conserva il fascino compiaciuto di quello stigma, né ha fretta di rinunciarvi. Molti di loro pensano di celebrare la fine della “ghettizzazione” (altra parola cui fanno uso disinvolto e frequente) fantasticando di un 25 aprile alternativo. Sicché alla Meloni, per ora, non rimane che stare attenta a non inciampare.
Lerner, un fiume di parole…
“Pacificazione “?dalla melona che appena insediata, in parlamento, diede della me*da a Conte, dal labiale?
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