(Francesco Erspamer) – Purtroppo lo so che alla maggior parte della gente, inclusi parecchi dei miei contatti, ossia persone selezionate e con le quali condivido aspirazioni e valori, importa solo il breve termine, dunque non le conseguenze future e lontane (ovviamente incerte, il che però dovrebbe suggerire rigore e prudenza, non precipitosità e approssimazione) e tanto meno la lezione del passato. E questo non necessariamente per egoismo; è che, ahimè, il liberismo ha stravinto e plasma le menti e le abitudini grazie alle sue tecnologie dell’attualità (breaking news, obsolescenza programmata, soglia di attenzione di 140 caratteri o due minuti video, disinteresse per la Storia e le tradizioni): la cultura della cancellazione non è solo un’isteria imposta dai liberal americani e immediatamente importata; è il fondamento di una struttura economica, il neocapitalismo, ormai dominante anche in Italia (ringraziate Pannella, Berlusconi, Veltroni, Vendola, Prodi, Renzi, Draghi e i collaborazionisti che fanno solo finta di opporsi, primo fra tutti Salvini) e che non sopravvivrebbe senza una continua dissipazione dei beni e un consumismo sfrenato e compulsivo, di prodotti ma anche di idee e di valori. Non c’è un ideale da raggiungere, nel liberismo, non c’è un telos, un fine, un’emancipazione, una maturità: infatti la crescita (growth) non punta a un obiettivo, diventare adulti, bensì alla propria perpetuazione, a qualunque prezzo, inclusa la distruzione di quanto di bello abbiamo ereditato dalle generazioni precedenti. Tanto erano tutti trogloditi, per millenni solo trogloditi, dicono i profeti della correttezza politica, che da bravi integralisti hanno trasformato le loro convinzioni in diritti universali anzi umani e pertanto indubitabili, obbligatori e sempre esistiti. Come fin dall’inizio fecero gli americani, che nel loro documento fondativo giustificarono la loro concezione del mondo non su precedenti storici (dunque su una durata), non su un’ideologia o una fede (che comportano responsabilità) e neppure su un vasto consenso: semplicemente sulla convinzione di avere ragione. Ecco l’inizio del secondo paragrafo: “Noi riteniamo che sono per sé stesse evidenti queste verità”; nessuna dimostrazione, tanto sono evidenti. Pochi decenni dopo il loro imperialismo e il genocidio degli indiani d’America furono legittimati in modo simile: affermando che si trattava di un “manifest destiny”, una necessità storica se non naturale.

La medesima arroganza ha consentito al piddino Zan di inserire nel suo decreto un’aperta e pericolosissima dichiarazione di liberismo integrale, coercitivo; leggete l’articolo 1 (ho notato che ben pochi fra i pasdaran dei diritti civili privati hanno dato una pur frettolosa occhiata al decreto, di certo non Elodie, che prima che diventasse insieme a Fedez il nuovo punto di riferimento intellettuale della sinistra, non sapevo chi fosse): “Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. Non vi preoccupa? La lotta contro l’omofobia è una scusa: a essere affermato, e trattandosi di una legge a essere imposto, è il diritto dell’individuo di regolarsi da solo; non siamo definiti insomma dal rapporto con gli altri ma solo dalla nostra autoreferenzialità e dall’autorappresentazione che in uno specifico momento vogliamo offrire (e il momento dopo possiamo cambiarla). Un’apologia del solipsismo che sarebbe piaciuta a Margaret Thatcher: la società non esiste, esistono solo individui. Ovviamente indifesi di fronte ai ricchi, famosi e potenti, come voleva appunto Thatcher e come piace alle celebrity alla Elodie.

Per scelta o per disattenzione farete quello che volete; che nella fattispecie è quello che vogliono i miliardari americani, no, non solo quelli americani, i miliardari e basta, tutti cosmopoliti nel senso che l’estrema ricchezza non ha confini o vincoli; ben contenti che i loro avversari di classe non sventolino più minacciose bandiere rosse ma solo rassicuranti bandiere arcobaleno. A simboleggiare appunto l’obbligo e il destino manifesto della molteplicità da supermercato o da “online store”, una molteplicità identica ovunque e che per affermarsi annienta le vere diversità, sempre locali e vissute localmente; e dietro questa inutile opulenza, il mito della trasformazione necessaria e perenne, più veloce della capacità di assimilazione dei popoli. Come nel caso dei sistemi e programmi informatici che siamo costretti a rinnovare ogni mese e ad accettare a scatola chiusa (la “scatola nera” di Bruno Latour) perché neanche gli specialisti riescono a capire cosa ci sia dentro e comunque sarebbe loro vietato di provare a scoprirlo, in nome del copyright o della privacy o di qualche altro immaginario diritto made in USA — “per sé stesso evidente”, naturalmente.

A evitare inutili insulti e il degenerare della discussione in rissa, ribadisco, anche se dovrebbe essere chiaro dalle righe precedenti, che non sto affatto negando il diritto di qualsiasi minoranza di esistere e vivere come le pare, nel rispetto della legge. Sto contestando specificamente il dogma liberista della preminenza dell’individuo sulla società; sto contestando la centralità assegnata da Zan all’io e alla ricerca personale del piacere; sto contestando la sua visione di una società in cui l’unico diritto sia la libertà di “esprimersi”, di “manifestarsi”. Ancora una volta rimando a una grande intuizione di Walter Benjamin, filosofo e marxista e in quanto tale inviso ai liberal e a loro incomprensibile: per affermarsi il fascismo, e a maggior ragione la sua versione aggiornata, il liberismo, “consente alle masse di esprimersi”, ossia di affermarsi individualisticamente, rinunciando in cambio a “veder riconosciuti i propri diritti”, che sono sempre collettivi.