(di Antonio Padellaro – Il Fatto Quotidiano) – Dunque c’è del metodo nell’insensata crisi di governo provocata da Matteo Renzi, detto demolition man. Mettere le mani su Palazzo Chigi e sulla poltrona di Roberto Gualtieri, da lì sulla governance del Recovery Plan, e quindi sulla gestione degli appetitosi 209 miliardi di fondi europei. Lo avevamo capito tutti da un pezzo, ma ieri lo abbiamo letto nero su bianco che “gli ambienti di Italia Viva fanno circolare l’ipotesi di uno scambio di ruoli ad altissimo livello: Paolo Gentiloni premier, Giuseppe Conte commissario europeo, con Mario Draghi ministro dell’Economia” (Linkiesta). A rileggere le cronache dei giorni in cui lo statista di Rignano armeggiava per mandare tutto a puttane c’è da farsi grasse risate. Ha un cattivo carattere, non si controlla, si fa del male da solo sosteneva il partito del disagio psichico. Mentre la teoria statistico-delirante attribuiva ai 30 mesi di permanenza a Palazzo Chigi di Giuseppe Conte – in procinto di superare il “record” di un Renzi perciò fortemente indispettito – l’origine della rottura che ha lasciato l’Italia in braghe di tela.

Tutte panzane costruite per negare l’evidenza dei fatti. Che, cioè, la crisi è stata innescata all’inizio di dicembre quando il premier ha portato in Consiglio dei ministri la sua proposta di destinazione dei fondi e di assetto della governance. Davanti alle proteste di Iv, Conte e Gualtieri si sono illusi che la soluzione del problema fosse la riscrittura del Piano. È stata infatti cambiata la destinazione delle varie poste, ma alla fine con un esito che non pochi considerano peggiorativo rispetto alla prima stesura. Non si teneva e non si tiene conto che a Renzi, uomo quanto mai concreto e coi piedi per terra, interessa soprattutto esercitare un diretto controllo sulla struttura tecnica che avrà il compito (e il potere) di individuare i progetti a cui destinare quella gigantesca cascata di soldi. A parte il consueto abuso del nome di Mario Draghi, l’essenziale per il piromane è trovare il modo di collocare ai vertici del Mef qualcuno di sua fiducia. Del resto, follow the money, segui il denaro è la regola che Matteo d’Arabia (nel board saudita, 80mila euro all’anno) non ha mai disimparato.