Il Sannio custodisce storie e leggende che ruotano intorno al mito delle “janare”: donne sospese tra sacro e profano, distillatrici di sogni in una terra dove cresce anche la gustosa mela Annurca

(di Dora Iannuzzi – repubblica.it) – In una terra antica come il Sannio, Benevento custodisce da secoli un dialogo silenzioso tra storia e mistero, portatore di un immaginario che affonda le radici in secoli di credenze popolari, leggende e antiche pratiche magiche.
Già in epoca romana, il territorio beneventano era crocevia di culti legati al femminile sacro: Diana, Iside ed Ecate — dee della notte, della natura e del passaggio tra il mondo dei vivi e dei morti— erano venerate qui come custodi della soglia che univa mistero e conoscenza. Col passare dei secoli, queste figure si sono trasformate nella memoria collettiva: da divinità a spiriti, da sacerdotesse a streghe, lungo un filo simbolico che intreccia religione, natura e magia.

Si racconta che, dove oggi si apre piazza Santa Sofia, sorgesse un tempo il leggendario noce magico: albero stregato, luogo di sabba e di metamorfosi, poi abbattuto per spezzarne i poteri oscuri. Al suo posto, secoli più tardi, il duca Arechi II volle erigere la chiesa longobarda di Santa Sofia, oggi Patrimonio Mondiale dell’Umanità Unesco. Poco distante, in piazza Papiniano, dove ancora svetta l’obelisco egizio in granito rosso d’Assuan, sorgeva il tempio di Iside, voluto da Domiziano: un legame con l’Egitto dei misteri, dove la conoscenza era atto sacro e la fede si faceva enigma.
Non è un caso che Benevento diventerà il paese delle janare: donne sospese tra sacro e profano, sapienti e temute, accusate ma guaritrici, oggetto di sospetto, ma custodi di un sapere antico fondato sulla conoscenza delle erbe, dei cicli della natura e dei segreti del corpo. Tra il XV e il XVII secolo, quando i tribunali ecclesiastici cercavano di stabilire il confine tra miracolo e diavoleria, molte di loro — levatrici, erboriste, conoscitrici di rimedi — finirono sospettate di stregoneria: il loro peccato, spesso, era solo la loro libertà.
Il nome janara — dal latino janua, “porta” — rivela la loro essenza: creature di soglia, custodi del passaggio fra due mondi, il visibile e l’occulto. Non legate al demonio, ma piuttosto ai riti propiziatori della terra e delle stagioni, le janare rappresentano un sapere ancestrale in cui il ciclo naturale diventa forma di conoscenza e di potere. Tra le piante del loro piccolo arsenale di magia verde ce n’è una che spicca: la mentastra, erba selvatica che cresce solo nei terreni umidi del Sannio, dove l’argilla e il respiro del fiume Sabato ne esaltano l’aroma. Ribelle come le donne che la raccolgono, non tollera di essere trapiantata altrove: perde forza, come se la sua essenza fosse indissolubilmente legata al suolo che la genera. Secoli dopo, la mentastra entrerà proprio nella ricetta segreta per ottenere il liquore Strega, una delle note più riconoscibili del suo bouquet dorato.

La letteratura seicentesca, con Francesco Redi, trasformerà il mito in parabola morale con la leggenda del Gobbo di Peretola: due gobbi, un sabba di janare, un destino opposto. Il primo, danzando con grazia, viene ricompensato: le streghe gli segano la gobba “con una sega di butirro” e lo curano “con un impiastro di marzapane”. Il secondo, invidioso e goffo, viene punito: la gobba del primo gli viene attaccata sul petto. Una favola crudele e ironica, che rivela la duplicità della magia: forza che guarisce o ferisce, che salva o punisce, a seconda di chi la evoca. Ma questo racconto non racchiude altro che il rapporto dell’uomo con la natura in tutta la sua brutale attualità: come la magia, la natura premia chi la rispetta e cerca la sua armonia, punisce chi vuole solo sfruttarla.
Questa eredità di simboli e narrazioni è custodita nel Janua – Museo delle Streghe di Benevento, allestito nel seicentesco Palazzo Paolo V. Un archivio antropologico e un percorso immersivo tra strumenti rituali, erbe, amuleti, ex voto, fotografie e testimonianze orali che ripercorrono la stratificazione dei culti, delle paure e delle pratiche popolari come forma di sapere e linguaggio alternativo del reale.

Ma in città la parola “strega” rimanda anche ad altro: nel 1860 nasce il celebre Liquore Strega, creato da Giuseppe Alberti, figlio di un farmacista, la cui ricetta, tramandata da generazioni, tutt’oggi è un segreto gelosamente custodito. Più di settanta erbe aromatiche — finocchio selvatico, cannella, zafferano… e la mentastra del Sannio — sono distillate con maestria artigianale per il liquore dal colore d’oro e dal profumo inconfondibile. Attorno alla distilleria Alberti crescerà un vero universo estetico: manifesti, etichette e campagne pubblicitarie firmate da grandi artisti del Novecento — da Marcello Dudovich ad Alberto Chappuis, fino a Fortunato Depero, che nel 1948 crea la celebre etichetta geometrica. Il Museo Strega, annesso alla fabbrica, conserva bozzetti, bottiglie, strumenti di distillazione e documenti che raccontano come il mito della bevanda si sia legato alla moderna comunicazione. Un racconto che si rinnova ogni anno anche con il celebre Premio Strega, fondato nel 1947 da Maria e Goffredo Bellonci insieme a Guido Alberti: nel Ninfeo di Villa Giulia a Roma è la letteratura italiana a brindare al proprio incanto, celebrando la magia del nome che porta.
Infine l’Hortus Conclusus di Mimmo Paladino, un chiostro silenzioso nel cuore del centro storico di Benevento, ancora si rivela luogo contemporaneo di memoria e iniziazione. Realizzato nel 1992, è popolato da sculture in bronzo e marmo che dialogano con frammenti antichi e simboli arcaici: un cavallo di bronzo con la testa velata d’oro scavalca il muro come messaggero del mito; elmi e scudi emergono dal suolo come reliquie di battaglie perdute; un grande disco-fontana richiama il sole o l’occhio divino. L’acqua che scorre, le conchiglie, le rose, i gigli e le palme che punteggiano il giardino parlano di sangue divino, purezza e gloria. È uno spazio iniziatico, dove luce e ombra convivono e l’uomo riscopre, attraverso questi archetipi, le proprie radici. “L’arte — scrive Paladino — è una soglia invisibile: un passaggio che non conduce altrove, ma più in profondità dentro le cose.”
Su questa scia di memorie e linguaggi, Benevento è stata una tappa del settimo appuntamento di Praesentia – Gusto di Campania. Divina, progetto della Regione Campania dedicato all’arte e ai sapori del territorio. Un viaggio che si concluderà il 7 dicembre a Napoli, al Museo MADRE, con l’incontro “Maestri e Margherite. Dall’antichità al presepe”, per celebrare l’VIII anniversario del riconoscimento Unesco dell’Arte del Pizzaiuolo Napoletano. Un itinerario che intreccia arte, cultura e gastronomia, in cui — dalle janare alla Strega Alberti, fino ai maestri pizzaiuoli — la Campania racconta se stessa come armonia di saperi, sapori e simboli.
Mentre il mondo celebra Halloween, tra zucche, fantasmi e maschere, qui le streghe non si nascondono ma abitano la storia e i profumi di questa terra: sono le janare, le guaritrici, le distillatrici di sogni. E se cercassimo un ultimo simbolo di questa magia, lo troveremmo nei meleti dell’Annurca, la regina delle mele: piccola, soda, profumata, dal colore rubino. Matura lentamente distesa al sole dopo la raccolta, in una pratica antichissima chiamata arrossamento a terra. Una metamorfosi lenta che ne esalta la dolcezza e custodisce l’equilibrio perfetto tra acidità e aroma. Non è la mela stregata di Biancaneve, promessa di sonno e oblio, ma la sua luminosa controparte contadina: un frutto che ha bisogno del suo rito, della sua luce e della sua ombra per diventare perfetto.
Forse, più che il pomo della discordia, è la mela della concordia — simbolo della magia buona del Sannio, che trasforma ogni leggenda in sapore, ogni storia in presenza viva.