
(Umberto Vincenti – lafionda.org) – Il Manifesto di domenica 17 agosto registrava che Putin, nel suo discorso ad Anchorage, ha parlato di storia e geografia. Vero, ma non lo ha fatto da maestro di scuola: ha parlato da statista al suo popolo e anche al popolo americano. Un discorso costruito secondo i canoni della retorica classica, che l’occhio un poco esperto riconosce facilmente, senza che questo riconoscimento implichi però consenso verso la politica interna e/o estera del Presidente della Federazione russa.
Evocare la cooperazione russa e americana durante la seconda guerra, ricordare l’importanza strategica dell’Alaska come base per l’atterraggio di aerei da combattimento, riconoscere l’aiuto economico americano fornito alla Russia con l’accordo Lend Lease, omaggiare i cimiteri comuni di aviatori russi e americani, appellarsi alla memoria, tutto ciò è all’evidenza strumentale per ricercare una comunione di premesse tra i due Paesi: da questo punto di vista la storia e la memoria uniscono più del presente. Alla pari della geografia: l’Alaska come il simbolo di una vicinanza territoriale incontestabile nell’auspicio di una prossimità anche nel campo della politica. E poi rivendicare con orgoglio la presenza russa negli USA di oggi: un grande patrimonio culturale vivo e vitale, le chiese ortodosse, i 700 nomi geografici di origine russa …
Un approccio abilissimo, tecnicamente perfetto: il passato che ci può unire o aiutarci a farlo. Un’opzione comunicativa di lungo corso, in uso ab immemorabili presso i vertici delle grandi potenze, da una parte e dall’altra del mondo. Nel suo discorso d’insediamento anche il Presidente Barak Obama aveva insistito sulla storia e sulla geografia; e si era inchinato alla memoria dei Padri Fondatori, ai loro ideali, alla storia degli USA, dichiarando che il dovere di tutti gli americani era di continuare consapevolmente «il viaggio» iniziato dai Padri. Duemila anni prima l’imperatore romano Claudio aveva sostenuto lo stesso in un discorso che ci è pervenuto: i senatori conservatori si opponevano all’ingresso in senato dei maggiorenti della Gallia Comata (Francia meridionale) e l’imperatore per convincerli aveva richiamato l’esempio del fondatore, di Romolo, «tanto saggio che nello stesso giorno passava dal considerare gli stranieri prima nemici e poi cittadini romani».
Il discorso di Putin cerca un’altra convergenza, forse meno evidente ma che non sarà sfuggita a molti americani: speriamo – egli ha detto – che i Paesi europei, «non creino ostacoli né cerchino di ostacolare i progressi auspicati con provocazioni o intrighi dietro le quinte». È precisamente quanto il Presidente Washington, nel suo Discorso di commiato, raccomandava agli americani il 19 settembre 1796, di non fidarsi degli europei, di non intrecciare il proprio destino «con quello di una qualsiasi parte d’Europa»: perché non si doveva correre il rischio – argomentava Washington – di «ingarbugliare la nostra pace e prosperità nelle reti dell’ambizione, della rivalità, dell’interesse, dell’umorismo o del capriccio europei».
Forse che non sono umoristici, nello scenario internazionale, i “volenterosi” che oggi si ritroveranno nella call per elaborare una loro strategia dopo il vertice in Alaska? Forse che non è un’astuzia levantina, veramente un imbroglio, la proposta di Meloni di garantire all’Ucraina, anche in difetto della sua inclusione nella Nato, l’usbergo dell’art. 5 del Trattato Nato laddove fosse nuovamente aggredita dalla Russia? Furbizia italica: non sei Nato, ma è come se lo fossi perché, se Putin attaccasse, noi tutti ti difenderemmo. Proposta da azzeccagarbugli e, a ben vedere, pure sciocca: come se Putin fosse così tonto da non riuscire a smascherare un tranello così palese.
Invece abbiamo bisogno di verità, questa: essere finalmente consapevoli che l’UE non esiste e l’Italia è insignificante. Nonostante Giorgia si illuda – e illuda i suoi tifosi – di contare perché lei vaga in continuazione per il mondo con abbondanza di sorrisi ammiccanti, abbracci e baci. Piuttosto domandiamoci perché una patriota come Meloni non sia capace di imbastire, per l’Italia, per la “Nazione”, un discorso intessuto di storia e geografia. Qualche passato dovremmo pure avercelo da qualche parte, giusto? Se fatto presente nei toni giusti, potrebbe, forse, risvegliare un’Italia frantumata da fazioni di vario genere. Certo nessun politico si sogna oggi di citare, che so, Mazzini o Dante. Neanche Giorgia però. Da lei uno se lo sarebbe aspettato. Il calcolo elettorale sembra tuttavia sconsigliare l’appello alla storia o alla geografia: Meloni sa benissimo, come Mattarella, che non si sta ai vertici dell’Italia se Bruxelles non lo voglia. Ma può essere che un’omissione così grave sia anche imputabile a un preoccupante deficit culturale comune, purtroppo, a troppi politici nostrani, sia a destra che a sinistra. Ne vedremo le ulteriori conseguenze negli anni a venire.
Nei fatti i nostri governanti trattano il patrimonio monumentale italiano esclusivamente come un bene di consumo da consegnare alla consumazione di un turismo becero, soprattutto estero. Un anno fa proprio Il Manifesto ce lo aveva ricordato a tutta pagina, la prima, dove campeggiava, come titolo, «L’orda»: l’invasione turistica minaccia le nostre città d’arte, rendendo insostenibile la vita dei residenti. Un’orda inarrestabile. D’altronde, che resta realisticamente all’Italia se non consumare la sua straordinaria, e ignorata, dotazione storico-artistica e ambientale? Poco altro.
Articolo che parte dall’incontro in Alaska e finisce col problema dell’overtourism. Solito minestrone insensato alla vodka.
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