Il critico d’arte, al Policlinico Gemelli per problemi di salute, combatte anche contro la depressione. “Narcisismo ferito”, dice Veneziani. “Deve lasciarsi alle spalle il ‘Vittorio Uno’ e rinascere”

(ilfattoquotidiano.it) – “Vorrei gridare al mio amico Sgarbi ‘rialzati e cammina, capra!’”. È l’accorato appello di Marcello Veneziani, giornalista e scrittore, all’amico Vittorio Sgarbi, ricoverato da alcuni giorni al Policlinico Gemelli di Roma. Un appello pubblicato in prima pagina su La Verità, per spronare il critico d’arte a reagire non solo ai problemi di salute ma anche nella lotta contro la depressione, “figlia del suo narcisismo ferito”.

“Vittorio ha la percezione che molte delle sue libertà impulsive non potranno più essere praticate. Il suo universo si sta restringendo: drammatico per chi è stato convinto di poter cavalcare il mondo. Una dimensione dell’io sproporzionata rispetto al passato e che lo porta ad atteggiamenti distruttivi”, spiega poi Veneziani in un’intervista al Corriere della Sera. Un riferimento, quello di Veneziani, non solo ai noti eccessi e alle polemiche che hanno caratterizzato la vita di Sgarbi, ma anche ai problemi di salute che lo hanno colpito in passato: dieci anni fa, un’ischemia cardiaca con un intervento e un ricovero in terapia intensiva al Policlinico di Modena.

Ma Veneziani, che conosce Sgarbi “da moltissimi anni” (“Ci siamo incrociati in mille convegni, dibattiti e seminari e Vittorio collaborò con il mio ‘L’Italia settimanale’ con una rubrica dedicata alle sue polemiche”), non perde la speranza: “La depressione è purtroppo un’ottima alleata della malattia. Ma conoscendo Vittorio non escludo affatto un risorgimento personale. Penso che potrebbe riuscire a ritrovare il giusto impeto per riprendere la sua strada”. E, per farlo, suggerisce un percorso di rinascita: “Deve passare attraverso una sorta di ‘piccola morte’ lasciandosi alle spalle il ‘Vittorio Uno’, dicendogli addio, per aprire il capitolo del ‘Vittorio Due’. Dovrà insomma immaginarsi in un’altra prospettiva certamente meno egocentrica e più legata al mondo reale”.

Veneziani, che definisce la loro amicizia “un’adozione a distanza” (“Non avrei mai potuto seguire i suoi ritmi”), ricorda il “talento unico” di Sgarbi e rivela un aspetto inedito del critico d’arte: “C’era in lui un che del Machiavelli che si ‘ingaglioffava’ con gli amici nelle osterie ma poi, tornando a casa, deponeva le vesti piene di fango e si confrontava dignitosamente con i classici che conosceva benissimo”.

Forza Sgarbi, torna a ruggire

(di Marcello Veneziani) – Vittorio, alzati e cammina. Tu non sei Lazzaro, tantomeno io sono Gesù ma il messaggio che covo da tempo e non trovo mai il momento e le parole per dirtelo, si riassume in quelle due esortazioni. Alzati e cammina. Dico a te, Vittorio Sgarbi, ricoverato da giorni all’Ospedale Gemelli a due passi dal Papa, sprofondato nell’ombra nera della depressione dopo una vita che ne ha viste di tutti i colori, non solo su tela.

Non so se Sgarbi vi sia simpatico, antipatico, insopportabile o indifferente (questi ultimi saranno pochissimi) ma so che un talento davvero raro come il tuo, esuberante di energie, curioso e goloso d’arte e di vita, non può lasciarsi andare così. So che negli ultimi tempi hai passato tanti guai, di ogni tipo; so pure che la vita è una parabola inesorabile che non concede proroghe ed esoneri speciali; ma non puoi passare dalla parte del male di vivere. Non si addice la bandiera bianca a chi ha cantato la policromia nella vita e dell’arte.

Rialzarsi è un consiglio che vale per chiunque ma nel tuo caso non è un consiglio, è un imperativo: tu non puoi permetterti di passare dalla parte del nemico e parteggiare contro la vita. Non puoi arrenderti tu che hai vissuto la vita al massimo, hai vissuto più giorni in una notte, più vite in una vita sola, dissipandola, strapazzandola, invadendo le vite altrui; devi essere grato per quel che hai vissuto, e ora devi riconvertire in bene il bello che hai ricevuto e propagato. Non arrenderti muto alla senilità. Si, senectus ipsa morbus est, diceva Terenzio, la vecchiaia è già in sé una malattia. Però Seneca, che non era un ardito guerriero ma un mite pensatore, ricorda che vita militia est, la vita è milizia e non si può disertare; non fummo noi a darci la vita, non tocca a noi stabilire quando finire. Lascia che sia lei o Chi per lei a decidere la fine, come decise il nostro inizio e ci gettò nell’avventura di vivere. Coltiva l’Amor fati.

Tu non puoi abbandonare perché la tua mente è ancora lucida e fertile, e può dare agli altri più di quanto tu possa immaginare, nonostante la tua altissima considerazione di te stesso. So che ti riesce difficile pensarlo, ostaggio come sei del tuo Io, ma la tua vita non è solo tua, è pure di chi ti ama, ti ascolta, ti legge, ti vuole bene, è nato dal tuo seme.

Non puoi cedere alla notte perché insegni la bellezza, che non sfiorisce nel tempo, e racconti i capolavori e i loro autori che vivono oltre il tempo; tu non puoi farti imprigionare negli anni e nei malanni, dopo averci mostrato che le cose più grandi non hanno tempo e non sono solo intime e private. La nostra vita è una cosa troppo piccola per barricarci dentro di lei e morire con lei; è una fettina troppo esile rispetto alle grandi cose che tramite lei puoi amare, riflettere – non solo nel senso di rispecchiare – e rappresentare. La vita nostra è passeggera, malandata, s’incurva, rallenta e si rimpicciolisce col passare del tempo, e quando entra nella fase senile si chiudono porte e finestre, si restringono prospettive e risorse; ma anche così, in quelle condizioni, può contenere inestimabili tesori. E tu lo sai. Ogni età ha le sue bellezze, le sue dolcezze, e anche in pieno declino offre impreviste gioie. Ogni stagione ha i suoi tipici frutti, e non devi aspettarti dall’una i frutti dell’altra. Ci sono giorni o persino attimi che contengono l’eternità, anche se durano poco. Non sprecare questi giorni, questi attimi per ripicca personale contro la biologia inclemente. Non fare capricci e proteste contro ignoti. Fai l’uomo, come ci dicevano da bambini quando stavamo lì lì per piangere.

Hai ancora dei compiti da svolgere, per esempio te ne assegno uno: devi ancora scrivere un libro riassuntivo della tua opera, una divina galleria, un olimpo dell’arte scritto con arte da te, solo da te, sui Grandi che hai frequentato a lungo, che hai conosciuto come pochi e che hai fatto conoscere; una specie di viaggio riassuntivo e di dialogo ultraterreno tra i giganti dell’arte che ci hanno donato una visione del mondo, naturale e soprannaturale.

Tu non ti rendi conto ma tu, vecchio, impenitente peccatore, troppo pieno di Io, di mondo e d’incontinenza, hai esaltato come pochi la grandezza dell’ispirazione cristiana e cattolica nell’arte, hai decantato i capolavori nati dalla fede o perlomeno nel nome e per conto della fede; hai testimoniato il devoto stupore per il miracolo della bellezza che si fa figura, umanità, volto, infanzia, maternità.

E poi, come si diceva nella Roma papalina, i peccati de’ fregna Dio non li segna; e tu hai compensato i tuoi seriali peccati con quell’istigazione continua al bello, al sacro e alla luce che ci porta ad abitare in cielo anche quando siamo in terra, vestiti di carne e avidi di lei. Sei stato un missionario di bellezza, che fa bene all’uomo e al mondo quanto la bontà e la carità.

Per farti reagire e tirar fuori lo Sgarbi incazzoso che conosciamo da sempre sono pronto a insultarti: stronzo che non sei altro, egoista e narciso, capra, capra, vigliacca come una pecora, tira fuori l’orgoglio, se hai coraggio. Torna a bordo, cazzo! Fatti vedere, fatti sentire, non svignartela così. Non lo avrai mai sospettato, e in verità non lo sospettavo neanch’io, ma ti voglio bene. E non sono il solo, vicino a te c’è qualche piccolo santo che soffre per te solo a vederti così. Non fai molto per meritartelo, ma ti amano per quello che sei, non per quello che fai.

Se la vita, come insegnò Oscar Wilde, è la tua opera d’arte lascia che a invecchiare sia il tuo ritratto, come Dorian Gray, ossia il tuo involucro esteriore, il tuo corpo e il tuo appetito sessuale; ma tu non cedere alla forza di gravità della vecchiaia. Anche a quest’età incipit vita nova; la nuova vita sarà con meno Io e più mondo, meno donne e più déi, meno corpi e più anime. A una certa età, l’arte di vivere cede il posto all’arte di vedere, ma tu che fai il critico d’arte sei già allenato a guardare il bello anziché carpirlo. Chi coltiva l’arte e la bellezza, il genio e la grandezza come tu hai fatto, ha una motivazione in più per mettere in salvo quei ventuno grammi d’aria che chiamano anima; quella parte non invecchia mai, nemmeno verso la fine, anzi. Con questo spirito, diceva Lacordaire, “non sono invecchiato, ho solo conosciuto giovinezze successive”. Suppongo che si chiami vecchiaia l’ultima forma di giovinezza, chiosava Jean Guitton a 95 anni. Vivi anche tu l’ultima forma di giovinezza, diversa da quelle precedenti. Sei ancora giovane tra i vecchi, e puoi giustificarti di vivere anche solo per prestare la voce ai muti capolavori dell’arte, in una prodigiosa sinestesia che muta la vista in parola. Quando sarà tempo verranno a prenderti loro, tua madre e tuo padre; non andartene per conto tuo. Per una vita sei arrivato in ritardo, ora non pensare di partire in anticipo.