
(di Marcello Veneziani) – Oggi è il centenario della nascita di Giovanni Sartori, maestro di color che sanno nella scienza politica. Non ha insegnato solo agli studenti ma anche agli studiosi, e avrebbe voluto impartire lezioni di politica anche ai politici. La sua amarezza di consigliere inascoltato in tema di riforme e costituzione si stemperò nell’ironia fiorentina con cui seguì le vicende della politica in Italia. I politici furono impermeabili ai teoremi del professore e ai suoi rimbrotti. Sartori appartenne alla cerchia privilegiata degli zii d’America, ovvero i maestri italiani con passaporto Usa. In un paese esterofilo come il nostro, i pensieri in trasferta, come i goal in coppa, valgono il doppio. Figuriamoci dagli States. Democrazia e definizioni resta il suo capolavoro più citato.
Come Hegel Sartori ha generato negli studi politologici una destra e una sinistra sartoriana, e un centro. Lui tenne a dirsi super partes anche se le sue finestre sull’Italia spiegavano meglio la sua collocazione: egli scriveva sul Corriere della sera e su l’Espresso.
I pochi che lo ricorderanno domani magari punteranno sulla sua critica al premierato (o a Berlusconi); ma al di là dell’ingegneria costituzionale, che di per sé privilegia le costruzioni teoriche sulla situazione storica e l’efficacia reale in tema di decisione e partecipazione, di sovranità popolare, nazionale e politica, c’è un saggio di Sartori che merita di essere ricordato. È dedicato all’immigrazione: Pluralismo, multiculturalismo e estranei. Ha un taglio da gran conservatore, realista ma non ideologico, liberale ma non troppo.
La polemica strisciante che percorre il testo è col multiculturalismo di estrazione marxista, il “fasullo terzomondismo nel quale confluiscono sinistre e populismo cattolico”. Non conosceva ancora i predicatori istituzionali e vaticani dell’accoglienza e la retorica, la prassi e la pessima gestione dei flussi migratori divenuti sempre più massicci. Al contrario, l’atteggiamento di Sartori sull’immigrazione è improntato a una severa diffidenza e un parco uso di aperture. Se non fosse stato Sartori a scriverle, lui che diventò o quantomeno fu usato come vessillo contro il berlusconismo e le destre al governo, sarebbero apparse inaccettabili affermazioni di questo tipo: “L’Europa è sotto assedio, e oramai accoglie immigranti soprattutto perché non sa come fermarli” ma “il problema non può essere risolto e nemmeno attenuato dall’accogliere più immigrati…Gli entrati non servono a ridurre il numero degli entrandi; semmai servono a richiamarne di più”. In particolare Sartori critica le sanatorie in massa e l’indulgenza verso l’immigrazione clandestina che resta, a suo parere, “una cattiva immigrazione”. Una linea avversa al filantropismo prevalso poi negli anni.
Sartori nega che l’Italia sia o possa diventare un paese razzista. Nega che estendere il diritto di voto possa prevenire atteggiamenti razzisti e nega che ci sia discriminazione fondata sul colore della pelle o sulla povertà: gli asiatici, nota Sartori, sono entrati poverissimi ma non sono affatto disprezzati.
Resistere a un’invasione di immigrati non è razzismo, diceva Sartori. Ma “ammesso e non concesso che questo sia razzismo, allora la colpa di questo razzismo è di chi lo ha creato”. Ovvero di chi ha generato le condizioni per una difficile convivenza. Il razzismo è per Sartori “un’accusa sbrigativa, superficiale, che generalizza troppo, e che rischia di essere altamente controproducente. Chi viene denunziato come razzista senza esserlo, s’infuria, e magari finisce per diventarlo davvero”. Sartori contestava il progetto multiculturale che, a suo dire, può solo approdare a un “sistema di tribù”, a separazioni culturali disintegranti, non integranti. Come di fatto sta accadendo, soprattutto in quei paesi come la Francia in cui è fallito il modello integrazionista; ma non funziona bene nemmeno nelle società multietniche del tipo inglese o americano. Sartori notava che il criterio principe per assorbire gli immigrati è la reciprocità: ti accogliamo e ti tolleriamo a condizione che tu non ti senta estraneo e ostile alla nostra società, alle sue leggi, ai suoi valori. La stessa reciprocità dovrebbe riguardare gli stati. Resta difficile per Sartori la compatibilità con gli islamici che a suo dire hanno una visione del mondo teocratica, opposta a quella occidentale.
Sartori difese il principio d’identità proprio sul confine tra noi e loro. Il senso del confine resta fondamentale in politica, secondo Sartori, che non cede all’ideologia senza frontiere dello sconfinamento, oggi predominante.
Resta qualche dubbio su alcune sue tesi. Se davvero la tolleranza è fondata come lui dice sulla reciprocità, allora diventerebbe impraticabile e non solo con gli immigrati. La reciprocità è un ottimo ideale regolativo: ma nella realtà è impossibile per l’inevitabile asimmetria dei mondi e dei sistemi a confronto. Il criterio della reciprocità va improntato a un sano realismo: lo Stato di diritto liberale o l’universalità “kantiana” vale solo in Occidente, almeno in teoria.
Per Sartori la causa dell’immigrazione è la sovrappopolazione e una responsabilità speciale è della “Chiesa cattolica che si ostina irresponsabilmente a promuovere le nascite”. La sovrappopolazione per Sartori è un’emergenza mondiale ma l’immigrazione è innescata più dalla globalizzazione e dall’occidentalizzazione del mondo. Quanto al boom demografico, le colpe della Chiesa sono modeste se si considera che più dei cinque sesti del pianeta non sono cattolici o cristiani e i paesi a più alto tasso di natalità sono islamici, induisti, tribali o d’altre religioni. Il messaggio cristiano, crescete e moltiplicatevi, sarebbe prezioso per l’Europa cristiana dove le bare superano le culle, e invece resta inascoltato.
La vera “scoperta” in età senile di Vanni Sartori è la comunità. Il politologo nota che quando la sovrastruttura (la nazione, lo Stato sovrano, l’impero) si disgrega, torniamo inevitabilmente all’infrastruttura primordiale, la comunità, intesa come organismo vivente. Sartori sposa l’idea di comunità nell’accezione più classica e più forte, quella di Tönnies che identifica con la “comunità concreta”. La comunità, secondo Sartori si coagula e si rafforza intorno al comune sentire e può ben riferirsi anche a comunità larghe. Ma parlare di comunità mondiale, come fa Dahrendorf “è pura retorica, è vaporizzare il concetto di comunità”.
Famosa è la sua polemica contro la videocrazia anche se fu ridotta in chiave di antiberlusconismo (sagacemente Sartori paragonò Berlusconi a un sultano); ma la sua era una critica aristocratica e conservatrice alla sottocultura televisiva, al “pensiero brodaglia” e all’inutilità di menti pensanti nell’era dell’homo videns e della videodipendenza.
Con Sartori ebbi alcuni dibattiti e qualche diverbio ma era un piacere litigare con la sua intelligenza vivace; benché autorevole “barone” non aveva il sussiego dei tromboni. Scienziato ma ironico.
La Verità
Grandissimo politologo. Lui e Montanelli mi piacevano perché dicevano le cose come stavano, pane al pane e vino al vino, senza tentennamenti o cedimenti. Non erano autolesionisti.
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E quale sarebbe la reciprocità che dovrebbe avere un ventenne che non sa una parola di italiano e si trova a fuggire prima da città a città, poi da città ad altro Stato perché non riconosciuto come cittadino? Queste persone non hanno alcun diritto, nemmeno all’istruzione, tantomeno ad un lavoro, vivono parcheggiate in centri di accoglienza dove lo Stato non ha nemmeno l’obbligo di insegnare loro la nostra lingua, tanto meno le nostre leggi. Io vivo in un comune di montagna, con un problema di spopolamento e conseguenti mancanze di servizi sempre più evidenti e queste persone vivono come chiuse in una riserva: arrivano, si fermano qualche mese e poi spariscono. Dove? Nell’oceano nero della clandestinità, nelle mani del caporalato, della delinquenza, al 99 per cento della disperazione. Parlare della guerra, dell’immigrazione, della povertà, dell’analfabetismo senza conoscerli con mano è molto facile, anche per un Sartori.
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“Per Sartori la causa dell’immigrazione è la sovrappopolazione”
Si metta d’accordo il venesian/pugliese con la sua amica non/antifascista Meloni che si lamenta sempre attraverso i suoi tg della scarsa volontà italica di fare figli.
Venesian non lo dice ma è chiaro che per lui e la sua amica, la Patria esige carne da cannone per le guerre programmate dalla Nato o, in subordine, per spezzare le reni alla Grecia o assaltare l’Etiopia per farne una colonia che manca solo al fiero popolo italico.
Ed è altrettanto chiaro che per loro gli immigrati non garantirebbero di avere le motivazioni combattive ferree, l’occhio di tigre nei corpo a corpo che solo patrioti con DNA italico certificato 100% potrebbero avere.
Ovviamente se patrioti italiani ben caricati a molla dai vari Mentana, Mieli Giannini, Severgnini, Gramellini, (con Fazio e Serra a fingere di versare lacrime invocanti cessate il fuoco) e gettati in trincea da politicanti di ogni risma da destra a sinistra imperversanti su Rai, Mediaset (e TV private minori sempre in cerca di soldi) a convincere della necessità scatenare la inevitabile mattanza.
Perché bisogna fare la guerra se si vuole la pace. E che diamine.
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Ho lavorato per parecchio tempo in Africa, e di posti ne ho visti, dalle grandi città come Abidjan o Nairobi fino ad un paese sperduto nel deserto del Niger, quale è Arlit.
Banale dirlo, ma la miseria che alberga da quelle parti è enorme; quella che mi è sembrata essere più atroce l’ho vista a Kolwezi, nel sud del Congo (DRC) nel Katanga, la regione mineraria di quel paese.
Paese ricchissimo di risorse minerarie, ma una povertà che lascia senza fiato; ho visto coi miei occhi gente del posto stare immersa nelle acque viola dei residui di manganese a setacciare pensando di trovare un pò di oro e ho visto i bambini tirati fuori dai cunicoli franati per prendere il Coltan ( aveva fatto una trasmissione sul tema Presa Diretta, un pò di tempo fa).
Ebbene, quando penso all’immigrazione, non posso fare a meno di pensare a quello che ho visto e a come vivono, si fa per dire, li le persone; mettendomi nei loro panni farei anche io la stessa cosa che fanno loro, andarmene.
Poi penso ad un ragazzo, una ragazza che completa in Italia il suo ciclo di studi e si affaccia nel mondo del lavoro, col significato che ha assunto la parola lavoro in Italia.
Se penso alle difficoltà che ha un giovane ad immettersi nel mondo del lavoro, alle condizioni di sfruttamento, alle condizioni salariali cui è sottoposto; se penso a quel giovane che in fondo ha una famiglia che lo sostiene, che parla la lingua del posto che sa come far fronte alla burocrazia; divento contrario all’immigrazione.
L’immigrazione se procede così come sta procedendo, senza alcuna regolamentazione seria ( quindi non la Bossi-Fini), produce danni anche a lungo termine.
Il modello di integrazione, così come è stato concepito finora, è fallito; Sartori ha ragione.
Visitando le città della Francia, ho avuto modo di vedere come hanno fatto le Banlieu; sono palazzoni enormi separati da una qualcosa dal resto della città; linee ferroviarie, corsi d’acqua, parchi/boschi.
C’è sempre qualcosa che permette di distinguere la banlieu dal resto della città.
Al capitalismo eurpeo servono le braccia, non le persone che le possiedono, specialmente se oltre alle braccia hanno anche un cervello.
Non credo la causa dell’immigrazione sia la sovrappopolazione; l’Africa, al pari dell’Europa e di tanti altri posti vive un processo di urbanizzazione che li assume contorni da film dell’orrore; mi riferisco agli slum, i quartieri fatti di abitazioni improvvisate senza servizi di alcun genere.
Tuttavia, con le dovute eccezioni quali la Nigeria ( uno dei due posti più m3rdosi al mondo in cui sono stato, l’altro, con buona pace di Renzi, è l’arabia saudita e non certo perchè è povera), non c’è nel complesso una eccesso di popolazione; c’è un’enorme disuguaglianza sociale, anche se in alcune realtà si può osservare la presenza di un ceto medio.
Ho cercato di essere quanto più generale possibile, ben consapevole del fatto che ogni realtà ha le sue specificità.
Condivido comunque l’opinione di Sartori: l’immigrazione così come sta procedendo, è insostenibile.
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Non ho avuto la fortuna di vedere con i miei occhi cosa sia l’Africa se non da alcuni reportage, sta di fatto che è proprio il sistema capitalistico il problema: se lo Stato non fa altro che iniettare denari a finte cooperative in cui c’è sempre un amministratore che incassa soldi a palate (ricordate Buzzi?: io con l’immigrazione faccio più soldi che con la droga? Ricordate i più recenti scandali dell’immigrazione con coinvolti sindaci della costa veneta, tra l’altro tutti di dx?) per gestire l’immigrazione, senza avere nessuna idea di come inserire nel tessuto sociale gli immigrati, essi saranno o schiavi o spacciatori o protettori o semplicemente disperati. Se si aggiunge che il ceto medio nell’occidente sta sparendo proprio perché le grandi imprese aumentano i profitti proprio sfruttado queste braccia a prezzo bassissimo o delocalizzando dove costano ancora meno, l’ immigrato diventa il primo rivale, il più attaccabile dal cittadino già derubato del suo potere sia d’acquisto che decisionale.. Ma chi ha creato questo sistema? In nome della competitività Confindustria si scaglia contro il salario minimo, quel salario tanto ricco per un immigrato. In nome della libertà sì evita accuratamente una super tassa per i ricchi e col nome di efficientamento si tagliano le spese nella sanità, nelle scuole e nella previdenza.e nei servizi alle persone, dove gli immigrati potrebbero essere inseriti con reciproco vantaggio. Ma l’Italia è oramai una mangiatoia rappresentata da figuranti
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