“Le grandi mobilitazioni dal basso in Francia e Germania? Impensabili in Italia. A differenza loro noi non ci attiviamo da soli. Abbiamo bisogno di qualcuno che organizzi la partecipazione. Come se ne esce? Rimettendo al centro la fisicità degli spazi pubblici. E la giustizia sociale”

(Enrico Mingori – tpi.it) – Filippo Barbera, professore ordinario di Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Torino, ha da poco pubblicato per Laterza “Le piazza vuote”, un saggio che analizza la crisi della partecipazione sociale e politica. «In molti Paesi europei – si legge nella quarta di copertina – le piazze sono piene, le strade invase e lo spazio pubblico è un rituale che crea effervescenza collettiva, solidarietà, capacità di futuro. Una situazione impensabile in Italia, dove le pratiche associative e la partecipazione sociale non alimentano più il circuito della rappresentanza politica».
Professor Barbera, Giorgio Gaber diceva che la libertà è partecipazione. In Italia, però, ormai un cittadino su tre non va a votare: significa che siamo diventati un Paese meno libero?
«Certamente non possiamo più accontentarci dell’idea, tanto cara al liberalismo, che la libertà coincida con l’assenza di vincoli. Dobbiamo esigerne una diversa: quella per cui siamo liberi se siamo in grado di interrogarci sulla giustizia della nostra esistenza, del nostro lavoro, del nostro modo di stare in una comunità insieme agli altri. Ma queste domande ce le poniamo solo se abbiamo delle opportunità di cittadinanza. E il voto è una di queste, forse l’unica che ci è rimasta. Anche questa, però, sta scomparendo…».
Lei scrive: «Il futuro delle società democratiche si costruisce in modo cruciale a partire dalla presenza di spazi condivisi quotidiani». Quali sono questi spazi?
«Sono le piazze di cui si parla nel titolo del libro, ma anche i circoli di partito, le sedi sindacali, le parrocchie, gli oratori, le biblioteche, i centri sociali, i parchi, i centri per la fruizione culturale gratuita e aperta… I luoghi ricchi di spazi di questo tipo favoriscono la possibilità di svolgere il proprio ruolo di cittadino».
In che modo?
«Prendiamo la piazza. La piazza dà luogo a performance collettive, è un rituale pubblico in cui i corpi si muovono allo stesso ritmo: genera effervescenza, coesione, valori comuni E anche capacità di agire. Il tema è rimettere al centro la fisicità come elemento costitutivo e irrinunciabile dello spazio pubblico. E lo spazio pubblico è l’humus all’interno del quale si genera la domanda per un futuro più giusto».
Ma perché le piazze si sono svuotate?
«Vanno considerati tre livelli. Il primo è, appunto, lo spazio pubblico di cui parlavo prima: le piazze, le biblioteche, i circoli di partito… Il modello neoliberale ha privatizzato e commercializzato lo spazio pubblico a favore di un modello di società composta da individui e consumatori. Il secondo livello sono gli spazi organizzativi della classe dirigente: ad esempio il parlamento. Questi spazi sono stati svuotati in nome di un’idea della politica disintermediata e veloce: pensi anche al mito dell’uomo solo al comando… I partiti erano anzitutto luoghi, oggi il dibattito interno avviene su Twitter o tramite i talk show».
E il terzo livello?
«È il policentrismo dei luoghi di vita. Anche questo è stato totalmente annullato: ci siamo accontentati di un’idea di spazio molto semplificante che riduce tutto alla centralità dei cosiddetti “luoghi che contano” a scapito dei paesi, delle città medie, delle periferie».
Eppure nelle ultime settimane abbiamo rivisto le piazze riempirsi: prima la manifestazione della Cgil, poi quelle pro-Palestina.
«Vero, ma se non ci sono uno spazio pubblico e uno spazio organizzativo dell’intermediazione, serve a poco. Sì, c’è una dimensione espressiva e si genera una effervescenza, ma se tutto questo non diventa azione politica, quelle piazze torneranno a svuotarsi».
Il punto di svolta, lei scrive, è stato la caduta del Muro di Berlino.
«Noi siamo di fronte al fallimento della classe dirigente globale post-1989. Questa classe dirigente si è ritrovata di fatto senza concorrenti – avevano vinto loro – ma poi non ha gestito la vittoria. Ha fallito perché ha rinunciato all’idea della giustizia sociale, all’idea che ci debbano essere degli obiettivi collettivi verso i quali le collettività organizzate tendono. La politica ha rinunciato ad avere questo ruolo di indirizzo appaltando le grandi scelte strategiche alle corporation».
Come se ne esce?
«Dobbiamo ritrovare il modo di capire come le collettività possono definire degli scopi collettivi, tenendo insieme la libertà delle persone con l’idea della giustizia sociale. Questo è il tema: se non lo risolviamo, non andiamo da nessuna parte».
In Francia e Germania negli ultimi mesi abbiamo visto grandi mobilitazioni. Le «piazze vuote» sono un problema prima di tutto italiano?
«Sì, lo sono. Gli italiani non hanno una tendenza autonoma alla mobilitazione collettiva. In mancanza di organizzazioni di rappresentanza politiche o sociali che intermediano e organizzano la partecipazione, noi molto raramente ci mobilitiamo per cause collettive. I francesi invece hanno una tradizione di mobilitazione più autonoma».
Dove nasce questa specificità italiana?
«Da un lato abbiamo bassi livelli di fiducia interpersonale, dall’altro una bassa fiducia nelle istituzioni e nei partiti politici. Se non c’è qualcuno che intermedia, non ci muoviamo».
Nel libro lei si sofferma a raccontare come, con il ridimensionamento della classe operaia, i partiti della sinistra si siano ri-orientati verso un ceto medio interessato più al mercato e alle libertà civili che ai diritti sociali e alle politiche redistributive. La crisi della partecipazione è colpa più della sinistra che della destra?
«Da un certo punto di vista sì. La destra che ora è al governo ha presidiato in modo più attento il tema della partecipazione. Se la segreteria di Elly Schlein ha una chance di cambiare le cose nel centrosinistra, questa passa attraverso l’autoriflessione sugli errori fatti e l’identificazione di una nuova strategia, che però si deve necessariamente accompagnare a una nuova struttura organizzativa, cioè a un modo diverso di pensare il partito. Non ci sono scorciatoie: se questo non avviene, non basteranno certo la buona volontà la competenza di Schlein per cambiare».
Nell’era del digitale e della disintermediazione, non suona utopistico invocare il ritorno della politica fatta negli spazi fisici?
«Il tema non è ritornare al fisico, ma rimetterlo in filiera con il digitale. Se lei ci pensa, i partiti e i movimenti che hanno avuto successo negli ultimi anni hanno gestito in filiera il fisico e il digitale: il M5S è nato mettendo insieme i meetup e Rousseau e un discorso analogo si può fare per Mélenchon in Francia e Podemos in Spagna. La dimensione fisico-spaziale ha una proprietà che il digitale non potrà mai avere: l’interazione fra corpi. Noi siamo fatti di carne e sangue: interagire in compresenza fisica ha delle proprietà non sostituibili».
A chi tocca la responsabilità di tornare a riempire le piazze?
«Tocca a tutti noi! Bisogna evitare due errori. Da un lato, pensare che ci sia un popolo dormiente pronto alla mobilitazione che aspetta solo la giusta narrazione per scendere in piazza. Dall’altro, pensare che ci sia una classe dirigente pronta che può scendere in campo domani e ricostruire. Bisogna essere consapevoli che veniamo da decenni di riflusso e che i processi di ricostruzione della domanda e dell’offerta di futuro non saranno brevi. Serve un lavoro molecolare, lento».
Guardandosi intorno, è fiducioso?
«Credo che in questo momento di disperazione la fiducia sia un dovere morale. Non abbiamo alternativa all’essere ottimisti».
Un altro problema tutto italiano è che questo paese è composto in prevalenza da vecchi con pensioni ottime o decenti – Questi non andrebbero mai in piazza. I giovani disperati sono tanti ma pochi rispetto ad altri paesi europei. Inoltre moltissimi giovani non sono per niente interessati alla politica e alla giustizia sociale. Vivono alla giornata. L’Italia è il paese perfetto per Melona e Co. Una persona con idee vecchie e a favore di quelli che contano. Non far pagare le tasse, per esempio, è un suo cavallo di battaglia anche se profondamente criminale. Lei rappresenta purtroppo “l’autobiografia della nazione” (Gramsci docet).
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Sono superficiali le ragioni che lei sostiene in merito al “perché non si va in piazza” a manifestare ecc.. Escluse alcune fasce le pensioni non sono elevate (e per di più negli ultimi tempi falcidiate dall’inflazione, e si badi, dall’inflazione “da profitti”), oltretutto si sa che in Italia salari e pensioni sono tra le più basse d’Europa. Riguardo ai giovani sono in percentuale sulla popolazione di meno rispetto agli altri Paesi, ma non con differenze molto significative; semmai i giovani non sono interessati ai problemi collettivi, della comunità, come le basse retribuzioni o le iniquità del sistema fiscale o la crisi del sistema sanitario pubblico, le disuguaglianze sociali, la cancellazione dei diritti nel mercato del lavoro ecc. , sono tutte cose lontane per loro come se non riguardasse il loro futuro; ma ciò deriva anche da una un sistema formativo e educativo messo in ginocchio dalle forze politiche di turno alla guida del Paese (obiettivi della destra sono proprio guarda caso le cose elencate sopra e ahimè caratterizzanti l’attuale fase, ma per la sinistra che ha dato il suo contributo alla loro realizzazione NON c’è perdono). Quindi quello che afferma Filippo Barbera è molto condivisibile
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Mi scuso non ho menzionato il tema dei temi, la questione AMBIENTALE e dei cambiamenti climatici di causa antropica (e del sistema economico capitalistico)
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Sono d’accordo con Arsenio Stabile. Vorrei aggiungere due considerazioni.
– La democrazia, che va molto oltre la libertà delle elezioni, richiede la possibilità di una discussione pubblica aperta. Se non c’è una effettiva libertà di stampa e i mezzi di comunicazione sono usati solo per fare propaganda, come si può avere una utile discussione pubblica ?
– Il tradimento del primo M5S ha avuto un impatto disastroso. Secondo me, non ci siamo ancora ripresi da quel colpo. Sento spesso gente dire: ” Sono ( i politici ) tutti uguali…” Grillo, Di Maio e gli altri ( che non definisco per evitare querele) hanno quasi ammazzato la speranza di poter cambiare le cose.
Nonostante questo, non mi arrendo.
Stefania Testa
Roma
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Mi manca Domenico De Masi… 😥
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Il problema della fine della partecipazione dei cittadini alla Politica è dovuto alla crisi della Sinistra subentrata a cavallo della caduta del muro.
Crisi a cui è seguito uno snaturamento della Sinistra stessa.
Fina a che questi snaturamento continuerà a persistere (difficilmente la Schlein riuscirà a cambiare il PD anche se va aiutata a farlo), nulla di buono si prospetta per il futuro.
Non credo che Conte, da solo, possa fare granché.
Non parliamo dei partituncoli autoreferenziali dell’estrema, stracolmi di aspiranti capipopolo in guerre perenni tra di loro per i loro piccoli poteri personali e incapaci di creare interesse autentico, di popolo, su temi che potrebbero imprimere una sterzata rispetto al declino morale e civile che stiamo vivendo.
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La politica non ha “fallito” anzi, non chiede di meglio che un paese anestetizzato dove fare i suoi porci comodi. Ma questo è del mestiere?
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La selvaggia repressione delle manifestazioni di piazza eseguita durante il G8 di Genova ha rappresentato per l’Italia la fine delle grandi proteste popolari. Sono ancora tollerate le canoniche adunate dei sindacati, ma moti di protesta frutto di insorgenze spontanee di massa non sono più ammessi. La lezione di Genova è stato un monito che nessuno si è preoccupato di cancellare, con una severa reprimenda dei protagonisti di quei fatti vergognosi. Un monito che vale tuttora. Come dopo la strage di Bava Beccaris, nel tempo di 20 anni maturarono le condizioni per cancellare l’Italia liberale, così dopo 20 anni dai fattacci impuniti di Genova sono sorte le premesse per tentare di chiudere l’esperienza dell’Italia costituzionale. Se tutti i responsabili della macelleria italiana fossero stati individuati, destituì e puniti i meloni, oggi, occuperebbero solo i banchi della frutta.
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C’è – o forse comincia a non esserci, dato l’afflusso nelle p.zze – la sensazione diffusa che scendervi non serve a niente, visto che le decisioni vengono in prevalenza prese all’estero (Bruxelles) e/o troppo influenzate da poteri extra-nazionali. La trasformazione da capitalismo industriale a finanziario globalizzato comporta anche cambiamenti nelle risposte di ognuno: comunitarie e corali prima, individuali e impotenti ora. Manca comunque il protagonismo dei tempi andati. Che potrebbe ritornare se l’eccessivo liderismo partitico subisse un calo, o venisse rivolto più alle agitazioni pubbliche e meno ai conciliaboli tra partiti solo teoricamente affini. Una occasione potrebbe essere la auspicabile decisione di indire un referendum per ripristinare l’art.18 e abolire il Jobs Act, un catalizzatore formidabile di energiche, ben visibili e persino contagiose proteste. Chi non ci sta lo dica chiaramente! Almeno verrebbe allo scoperto la concezione di POLITICA di ciascun partito e associazione. Ma occorre prima che qualcuno PONGA LA DOMANDA! Un vero leader di razza… anticipa l’emersione di quello che cova, invisibile, sotto la cenere!
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Belli i commenti che ho letto; dovrei mettere un like a molti di voi.
Lo faccio collettivamente con questo commento.
Io credo che la frase che spiega in pieno il motivo per cui non si scende in piazza sia la seguente:
“Da un lato abbiamo bassi livelli di fiducia interpersonale, dall’altro una bassa fiducia nelle istituzioni e nei partiti politici”
Come ho avuto modo di scrivere altre volte si tratta di un problema culturale.
Il fessofurbismo, il chiagni e fotti, il chiamare furbetti i ladri sono la rappresentazione più evidente di questo degrado culturale che va avanti da decenni.
In Italia, è vero, non si scende in piazza; ma questo non vuol dire che non ci sia una forma di dissenso.
Il dissenso non è l’astensionismo elettorale; quello se mai è una ulteriore dimostrazione di basso livello culturale.
Il dissenso vero è costituito dalla demografia da incubo che caratterizza l’Italia.
L’emigrazione; specie dei ragazzi e delle persone più istruite e di cui il nostro sud rappresenta l’espressione massima, unitamente alla bassa natalità con trend in ulteriore calo, sono la forme più evidenti.
Non ho visto nell’agenda di nessun partito accennare a questi temi; ho visto qualche articolo che lo accenna, nulla di più; segno che siamo ben lontani dalla soluzione; ci serve più tempo.
Ma ce lo abbiamo?
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Tutte le analisi politologiche che ho letto, non tengono conto di un semplice dato di fatto: in Francia ed in Germania eventi come i VDay, gli Tsunami Tour e Italia5Stelle (e parliamo solo di pochi anni fa), se li possono solo immaginare.
Eventi in cui trasversalmente una larga fetta di società italiana si è riversata in massa nelle piazze, la Aosta a Lampedusa, in folle oceaniche e post-ideologiche che non si ricordavano dai tempi del Ventennio.
Cuori e menti colme di speranza e voglia di partecipare.
Il resto ormai è storia per la quale ciascuno può tirare le conclusioni che ritiene, e nella quale, come in ogni romanzo giallo che si rispetti, anche il questo caso, l’ assassino di quelle speranze non può che essere stato il maggiordomo.
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