(Andrea Zhok) – Ieri ho reagito sopra le righe ad un commento che si sforzava di vedere nel presente sfacelo democratico, nella costante crescita dell’astensionismo, una prospettiva in qualche modo di speranza, secondo la logica per cui ad un certo punto si raggiungerà un limite oltre al quale le cose dovranno cambiare. Ora, restando alle contingenze correnti, non metto in dubbio che in Lombardia e Lazio la reazione giusta sia stata quella di andare fuori porta. Se nessuno è votabile non si vota, ed è giusto così.

Tuttavia credo sia molto pericolosa l’immagine per cui di catastrofe in catastrofe, di arretramento in arretramento, di sconfitta in sconfitta, si arriverà ad un punto in cui la baracca non potrà reggere e verrà il momento della rivincita.

Si tratta di un trabocchetto mentale, di un’illusione che sento ripetere da quando ho consapevolezza politica. Quarant’anni fa sembrava impossibile superare il cinismo politico di Andreotti, e la sfacciata arroganza di Craxi; ad un certo punto l’intero “ancien regime” della Prima Repubblica sembrava una compagine maleodorante e in via di decomposizione, rispetto a cui qualunque soluzione non poteva che essere migliorativa.

E allora vennero le uscite sbracate di Bossi che vendevano per genuinità popolare la pura e semplice grettezza, con a fianco il cabaret politico di Berlusconi, concentrato senza infingimenti nella cura degli affari propri. E ci scoprimmo a rimpiangere Andreotti e Craxi rispetto all'”avvento della società civile” in politica.

Al deperire del vigore politico dei “padri della Seconda Repubblica” (Bossi e Berlusconi appunto), abbiamo pensato che dalla pochezza della “società civile in politica” ci avrebbero salvato i “tecnici” o i “giovani”, e così abbiamo visto emergere i Monti, i Renzi, i Draghi, in un interminabile processo decompositivo. E di nuovo ci siamo trovati a dire che dopo tutto Bossi e Berlusconi così male non potevano esser stati.

Mentre ad un ceto politico sciatto ne succedeva uno più sciatto, ad uno autoreferenziale uno ancora più autoreferenziale, mentre l’intera classe politica diventava sempre più fortemente dipendente da cordate di finanziatori esteri, tutto quello che ancora aveva retto del paese, dalla scuola, all’università, ai servizi pubblici, ai teatri, alla sanità, al diritto del lavoro, ecc. veniva portato al macero, pezzo per pezzo, anno dopo anno.

E tutto ciò che è perduto non viene più recuperato, perché la memoria delle persone si perde, mentre i giornalisti à la carte ne cancellano le tracce residue, ed ogni nuova generazione si adegua ad un nuovo standard, sempre più infimo, dove l’arbitrio, il caos, l’ingiustizia, le ragioni ridotte a mode, lo sfacelo culturale – gabellato come “modernizzazione” e “rottura degli schemi” – continua ad approfondirsi scoprendo sempre nuovi abissi.

La verità è che non ci si deve illudere mai che, ad un certo punto, toccato il fondo, “non si possa che risalire”. Questa metafora del “cadere e rialzarsi” è fuorviante.

La metafora più appropriata per un organismo sociale è quella di una malattia, una malattia che procede estendendosi, aggravandosi, indebolendo l’organismo, affaticandolo, bloccandone le funzioni, riducendone le difese, assopendone la coscienza e la capacità di reagire.

Inizialmente, per un organismo sano, reagire ripristinando un certo ordine funzionale non è difficile. Ma più il tempo passa senza reazioni degne di nota e più l’organismo si indebolisce, più le armi a sua disposizione per difendersi dal caos che lo invade si riducono.

Alla fine del processo non ci aspetta nessun solido terreno su cui poggiare per rimettersi in piedi, ma solo una lunga agonia prima della dissoluzione.