Giorgetti come Fini? Salvini non capisce che è un complimento

(Filippo Rossi – Leader Buona Destra) – Premessa metodologica: questo articolo non è per nulla l’elogio di una persona e di un leader, è piuttosto la difesa accorata, esistenziale prima che ideologica, di un approccio ideale, di un percorso politico, di un fine strategico. Perché Gianfranco Fini non ha certo bisogno di una difesa né d’ufficio né di merito. Ma quello che lui ha rappresentato sì che merita una difesa. Eccome se la merita.

Come ha reagito Matteo Salvini di fronte alle critiche di Giancarlo Giorgetti sul suo posizionamento antieuropeo? La cosa più scontata che poteva dire: “Sta facendo il Gianfranco Fini…”. Eccola qua la reazione di un qualunque leader che non sa come rispondere a prese di posizioni che azzardano un minimo pensiero complesso invece del solito signorsì senza dubbi e senza profondità.

E allora, diavolo, vediamo cosa ha significato davvero aver fatto il Gianfranco Fini in Italia, al di là di Fini stesso e soprattutto al di là di una vulgata fondata sul concetto per nulla politico di “tradimento”. Ha significato aver portato per mano la destra neofascista e postfascista nell’alveo dell’arco costituzionale e repubblicano. E, diciamola tutta, non era per niente facile o scontato, viste ancora oggi le evidenti vene nostalgiche che scorrono dentro il partito guidato da Giorgia Meloni (Piuttosto, Carlo Fidanza è ancora nel partito? Giusto per sapere).

Ha significato il coraggio di abbandonare la casa madre verso un percorso politico liberale ed europeo. Ha significato dire no alle sirene estremiste e alla beata marginalità di una destra che preferisce, sempre e comunque, la via dell’opposizione. Significa aver avuto la forza di un viaggio in Israele che aveva e ha ancora la cifra alta dell’evento storico. Il coraggio di chiedere scusa. Il coraggio di parole inequivocabili.

E ha significato aver cercato forsennatamente di far uscire l’Italia dalla fase semicoloniale della prima repubblica per arrivare a un nuovo patto tra forze politiche all’insegna del rispetto reciproco. Non tutti ricordano l’assemblea programmatica di Alleanza Nazionale di Verona durante la quale Fini (era il 1998!) teorizzò con forza l’uscita dalla strisciante guerra civile tutta italiana. E non tutti ricordano come il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi si presentò in quell’assemblea come un piazzista distribuendo cinquemila copie del “Libro nero sul comunismo”, riproponendo così una contrapposizione ideologica che il giorno prima lo stesso presidente di An aveva voluto accantonare.

Eh si, perché “fare il Gianfranco Fini” ha significato anche cercare con impeto e impegno morale una pacificazione nazionale che, a ben pensarci è una follia, non siamo ancora riusciti davvero a raggiungere dopo più di vent’anni. E ha significato, bisognerà pure aver il coraggio di dirlo una volta per tutte, il non aver mai accettato supinamente l’idea che la politica potesse essere una questione “aziendale”. Ha significato, in definitiva, la forza di non farsi comprare. E ha significato capire che la politica non può essere solo piatta propaganda ma deve soprattutto essere governo della complessità.

Ecco, “fare il Gianfranco Fini” ha significato in estrema sintesi tutto questo. E, sempre per estrema chiarezza, tutto questo non significa affatto dimenticare gli errori fatti dal Gianfranco Fini uomo e leader politico. E non significa nemmeno vagheggiare una qualsiasi rifondazione finiana. Significa però rimettere le cose al loro posto almeno dal punto di vista metaforico. Sì, Gianfranco Fini come metafora concretissima di un tentativo serissimo di costruire anche in Italia una destra di cui non bisogna vergognarsi. E anche se fosse solo questo a me sembra, sinceramente, un’enormità.

1 reply

  1. A parte le stronzate – non molto diverse da quelle fatte da tanti altri rimasti saldamente in auge, come il delincuente di Arcore – che gli son costate l’uscita – certamente non osteggiata- dalla politica, l’articolista ha ragione

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