(Giuseppe Di Maio) – Mettendo il piede a terra dalla scaletta dell’aereo atterrato in Italia, hai subito la sensazione di essere arrivato in un posto dove le regole valgono poco, dove te la dovrai cavare con strumenti precivili: furbizia, aggressione e, pubblicità; hai subito la sensazione che ognuno si stia adoperando a fregare il prossimo. Ovvia, è solo un’impressione (poi ne avrai la certezza), ma ti stavi già abituando a usi diversi – eri stato per un certo periodo fuori dal bel paese in cerca delle opportunità garantite dalle regole che da noi non avremmo mai potuto avere.

Quando si parla di anomalia italiana, non si sta pensando solo a uno specifico strumento di legge, ma al senso diverso che la democrazia acquista dentro o fuori dei nostri confini. Si sta parlando, a volte con malcelato orgoglio, dei connotati precipui della nostra civiltà millenaria in cui affondano le già scarse capacità di insorgere e persino di stupirsi. Tutte le conquiste della modernità, che oltralpe hanno creato le comunità nazionali d’Occidente, da noi sono state solo copiate e stravolte al fine di costruire il recinto per ladri che chiamiamo Italia. C’eravamo illusi che il giudizio negativo nel ‘700  dei viaggiatori stranieri per la Penisola fosse definitivamente sepolto, disgraziatamente ancora adesso non è cambiato, pur condividendo tanti istituti e organismi sovranazionali.

I Letta, i Tajani e i Salvini vogliono far credere che abbiamo bisogno di efficienza e modernità, per attirare investimenti, per stare al passo con le democrazie europee, ma mentono, perché esse ci chiedono tutt’altro. Difatti l’anomalia italiana sta nel non avere, unica in Europa, un salario minimo. Sta nel non avere una vera tassa di successione, progressiva agli averi e feroce con le larghe parentalità. Non abbiamo una patrimoniale, e ci ostiniamo a tassare il lavoro, deprimendolo, pur di non toccare la ricchezza. Abbiamo il sistema pensionistico più iniquo del’Ocse, che trasferisce i vantaggi sociali acquisiti nell’età attiva direttamente sul carico del sistema erariale, senza limiti superiori alle erogazioni pensionistiche e con ridicoli limiti inferiori. Tutto questo genera una contribuzione dell’apparato statale totalmente sbilanciata, per cui i maggiori beneficiari del sistema pubblico sono quelli che vi contribuiscono meno. La tenue inversione di tendenza del reddito di cittadinanza subisce minacce quotidiane.

Ma veniamo al nodo esiziale dell’anomalia. L’obiettivo della politica è creare regole per una comunità, e regole per il rispetto delle regole. La prescrizione è in tutto e per tutto una regola che dispone un diverso accesso alla giustizia, un filtro che stabilisce l’assenza di pene per un ceto abbiente, lasciando sanzionabile solo quello gregario. Questo è il motore costante della disuguaglianza, questo è l’arcaismo italiano che l’Europa ci chiede di cambiare. Poiché, non si capisce come mai la politica, dopo che ha sommerso il processo penale di garanzie pretestuose che ne prolungano la durata, voglia concedere ai trasgressori abbienti di giovarsi di tempi rapidi come se da essa non fosse dipeso il termine della celebrazione. E come mai i tempi di una richiesta di giustizia di un misero restano secolari? Come mai anche al poveraccio ricorrente non viene accolta automaticamente la sua interpellanza dopo aver atteso un tempo adeguato?