(Anna Lombroso per il Simplicissimus) – Ormai guai a essere increduli, interrogarsi, impiegare la ragione e il buonsenso, nutrire il dubbio, un tempo caposaldo di ogni disciplina, sono considerati vizi capitali, peccati mortali che arruolano i reprobi nelle bande barbariche del negazionismo e della dietrologia populista.
E ci credo, mai come oggi il Potere si alimenta di balle e propaganda menzognera, e mai come oggi si è assicurato la facoltà di proibire concretamente oltre che moralmente o di circoscrivere e censurare l’accesso alla conoscenza, proprio grazie al possesso esclusivo degli stessi strumenti che abbiamo a torto ritenuto ci avrebbero permesso di usarla per partecipare alle decisioni.
Così vengono imposti atti di fede reiterati, pena l’estromissione dal consorzio civile e pure da Facebook, perché l’ordine che deve regnare è quello su misura per pesci boccaloni, creduloni in maschera, bocciati in biologia alla maturità che devono essere rieducati e redenti, grazie a un quotidiano omaggio alla scienza e alle sue gerarchie sacerdotali e dedicandosi a un solerte e energico proselitismo vaccinale. Il bello è che le “scienze” sulle quali è doveroso giurare ogni giorno e con ogni atto, sono le meno “certe”, quelle che non solo non prevedono una continuativa e feconda verifica dell’efficacia, ma addirittura quelle che sono incorse nei più spettacolari fallimenti, nelle più plateali smentite, malgrado a nutrirne la fama abbia pensato il mito del Progresso, del quale oggi più che mai è obbligatorio venerare gli aspetti salvifici e positivi, omettendo gli effetti collaterali e la sua applicazione disuguale.
Parlo non solo delle scienze della vita e della morte, nelle sue svariate branche, oggi volutamente interscambiabili, confuse e contraddittorie, retrocesse a ostensione di opinioni personali a supporto di disposizioni di ordine pubblico.
Parlo della disciplina promossa a religione in nome della quale ogni giorno compiamo sacrifici, che è azzardato definire “scienza” malgrado sia oggetto di un Nobel di serie B, malgrado le sue caste abbiano raggiunto immunità e impunità a fronte di clamorose smentite e di efferati delitti compiuti in loro nome.
Pensate a cosa ci ha fatto credere l’Economia, sia in veste di apparato teorico, che nella proposizione di modelli e ordini sociali, pensate al ruolo assunto dai suoi addetti quando malauguratamente si sono o sono stati incaricati di applicare le loro teorie, i loro postulati e recentemente i loro algoritmi alla nostra misera realtà di cavie o merci.
Pensate alle affermazioni imposte come verità indiscutibili e leggi naturali da una élite politica e mediatica che è riuscita a vivere riparata da critiche, da valutazioni e accertamenti così da pervadere il nostro modo di pensare al punto tale che noi, le vittime, creiamo e confermiamo col voto e l’obbedienza le condizioni per farci privare dei nostri diritti e delle nostra garanzie. “Il debito pubblico è un pericolo che mettete in capo ai vostri figli”, “la disoccupazione si combatte con la flessibilità”, “il libero scambio giova alla collettività”, “troppi diritti elargiti ai lavoratori impediscono nuove assunzioni”, “i privati sono più efficienti e garantiscono il funzionamento della società, dei servizi, delle scuole, degli ospedali” e così via, sono solo alcune delle strofette del mantra del pensiero unico che si è accreditato e che abbiamo autorizzato grazie alla potenza malefica di aver abiurato a ogni alternativa che viene derisa o criminalizzata perché supera i limiti del possibile.
Appena si apre bocca per contestare, è subito pronta una risposta “realistica” che ci condanna all’accettazione di ogni sopruso tramite il ricatto e l’intimidazione: “avete speso troppo e adesso il debito accumulato impedisce di investire in welfare”, “avete voluto troppo e adesso le imprese delocalizzano in luoghi dove ci sono norme più permissive e lavoratori con meno pretese”, riconfermando l’impotenza di qualsiasi pensiero e atto che metta in discussione i rapporti di forza consolidati.
Eppure proprio quello che oggi viene condannato o disprezzato come velleitario veniva realizzato quando lo Stato aveva ancora un ruolo strategico di investitore, quando era il regolatore dei mercati finanziari, a conferma che le ere economiche non sono statiche, che sarebbe indispensabile e salutare cambiare orizzonte e prospettiva e che, in considerazione dei fallimenti registrati dagli anni ’80 in poi, non si dovrebbe fare affidamento sulle “verità” economiche, soprattutto quando si accreditano come teorie e modelli, mentre si tratta di un poderoso apparato ideologico che tratta numeri e monete come armi di sopraffazione e controllo della società.
E dire che sarebbe così facile togliere il mantello di ermellino sotto il quale l’imperatore è nudo, basterebbe chiedergli quando brandisce come un’arma lo scettro delle sue misure: “a chi gioverà tutto questo?”, quando chiunque ha appreso sulla sua pelle che la creazione della ricchezza e la sua distribuzione, che costituiscono il fondamento dell’economia, seguono percorsi disuguali, che qualcuno ha i mezzi per giustificare le disuguaglianze grazie alle quali può godersi la fetta più grossa di quello che si è conquistata la collettività. E che a questo aspirano i valori della meritocrazia continuamente esibiti, che a questo serve l’idolatria del successo, a concretizzare cioè le condizioni per le quali chi è arrivato è autorizzato a pagare meno tasse, a conservarsi i beni accumulati con azioni illecite, a far sì che il libero scambio sia un sistema che non prevede una circolazione per tutti di merci, risorse e idee, ma benefici per multinazionali e azionariati.
E se l’economia non è una scienza esatta, non è una scienza neutrale, nemmeno una scienza in verità ma l’insieme di puntelli funzionali a dare potenza e mantenere forme imperiali di governo della società, a ridurre la decisionalità e le competenze dei regimi democratici, a limitare la possibilità di partecipare alle decisioni dei cittadini “incompetenti”, allora sarà lecito contestarne gli indirizzi che hanno prodotto effetti collaterali dannosi, le sue architetture crollate al primo terremoto borsistico, senza essere accusati di negazionismo, o di sterile ribellismo in modo da discernere tra autorevoli tecnici inattaccabili e ridicoli militanti frustrati.
E non sarà ora di applicare la stessa regola a quelle scienze perlopiù inesatte e certamente non neutrali occupate come sono da interesse commerciali, che hanno invaso le nostre esistenze, dalla virologia ella statistica, applicando quel semplice principio discriminante di cui sopra: “a chi giova”?. Un interrogativo semplice alla portata di tutti, che non richiede diplomi, master e specializzazioni, ma un bene che tutti possediamo, la ragione, e che dovremmo conservare e tutelare contro chi vorrebbe tacitarne la voce, condannandoci al brusio indistinto della paura e della soggezione.
Grazie Anna Lombroso, lo schifo trasuda in ogni inimmaginabile anfratto di questo misero paese.
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Sulla logica del cogito ergo sum, vi sarebbero da dire 2 parole: In Italia è stato fatto di tutto per rendere il più possibile inerme la popolazione civile, per creare ampie zone di confine, zone d’ombra dove il lecito si confonde con l’illecito; non è la P2, è il distillato dello stato mafia, è la deviazione legittimata ad uso e consumo di coloro che devono tenere sotto controllo la popolazione per permettere alla mafia e a coloro che hanno creato vari innesti di avere e di detenere il maggior numero di risorse possibili e la storia va avanti da un bel pezzo pezzente. E i più pezzenti sono quelli mascherati, coloro che incarnano lo status quo senza il velo del dubbio che sfiori le loro misere fronti; dalla prostituzione alla magistratura tutto segue il filo rosso del sangue che ha innervato questa terra al posto dei suoi bellissimi fiumi. Che fare? niente, il silenzio è la migliore medicina, gli spazi sconfinati sono il miglior terapeuta, il sogno è ancora il messaggero di qualcosa che potrebbe avere le sembianze di un sentimento; il resto segue inarrestabile la sua corsa verso l’autodistruzione, verso la cannibalizzazione di ciò che è rimasto dell’essere umano, se questo è un uomo io sono un formichiere; In questo spaccato storico dove è toccato infrangere con la nostra corporeità e la nostra intelligenza, non resta che l’anima, appesa a qualche cespuglio nella variegata campagna. Altro non è dato se non servi, se non ti fai usare, se non compartecipi alla degradazione di ogni spaccato di società civile; è la fine Bellezza! Oltre esisterà solo la feccia umana a brancolare nello spazio alla ricerca di un brandello di specchio vivente su cui poter versare lacrime copiose senza riuscirvi, senza altre risorse se non il piegarsi e il piegarsi ancora a logiche inumane create dai sub umani innalzati a divinità, del globo terracqueo, pazzi pure loro, perché resteranno soli, ubriachi dalla loro vanagloria di essere stati utile ad una causa, ambigua e incivile come solo questa società post industriale può esserlo.
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La tecnologia ha reso l’uomo schiavo dei suoi istinti, ma è inutile cantare le gesta eroiche di amanti del computer perché di eroico non hanno niente e men che meno del fine gusto di un eroico erotismo, sopravvissuto a tanta acerbità sparsa da vagonate di camion sulle teste. La tecnologia renderà l’uomo sterile nei sentimenti in quanto da e continuerà a donare input da servo sistema, stemperando su kilometri di centraline e cavi quel che resta del giorno, quel che resta di un approccio, forse scevro dal condizionamento abituale. Chi vuole può restarsene fuori, diventando un paria all’arrovescio, l’intoccabile persona che si autocondanna alla povertà, all’isolamento allo stesso modo con cui permane in una libertà di pensiero. Il gioco vale la candela? Domanda alla quale io non posso rispondere, se si sceglie un sentiero è bene proseguirlo per non incedere in burroni, diramazioni, dirupi scoscesi e salite impensabili.. Il sentiero della propria anima che nel rigurgito dell’attorno suona eretico come una campana folle che scampana ai minuti impensabili nel tempo.
Il tempo del raccoglimento non è dentro le mura sepolcrali delle chiese, odorose di incensi e candele tremolanti nella profondità degli incavi d’ombra, ma alla solerte luce di un’ alba in là da venire, contata in infiniti giorni passati fra file di esseri che non hanno mai avuto il coraggio di fermarsi se non per bere, se non bestemmiare, se non per guardare, se non per giudicare, se non per incattivirsi per andare più lontano, nel buio di gesta senza rimorsi, senza girare lo sguardo indietro, sia mai che la strega li possa pietrificare in un silenzio circoscritto in se stessi.
Ma l’ultima parola spetta solo alla morte, come il primo vagito spetta solo alla vita, negli alterchi e nei sublimi dialoghi fra se e la vita che passa, che lascia la sua impronta ovunque si risponda alla sua presenza.
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