CAPOLINEA – NON BASTA UN CAMBIO DI LEADER

(di Domenico De Masi – Il Fatto Quotidiano) – Pasolini morì il 2 novembre 1975. Nei mesi precedenti, tra il primo agosto e il 28 settembre, aveva pubblicato sul Corriere e sul Mondo sette articoli centrati sulla necessità di un processo al gruppo dirigente della Democrazia Cristiana, da Moro a Zaccagnini, da Andreotti a Fanfani. Sulla falsariga di quel carteggio, e sulla base di analoghe imputazioni, nell’anno 2000 proposi su Micromega un analogo processo a cinque leader della sinistra – Bertinotti, Cofferati, Cossutta, D’Alema e Veltroni – ognuno dei quali aveva ereditato un protettorato politico in floride condizioni e lo aveva ridotto in macerie. Mi chiedo oggi se non sia il caso che si riprenda l’idea luterana di Pasolini sottoponendo a un pubblico processo gli attuali esponenti del Pd, che ne hanno fatto scempio. Intendo i leader in blocco, perché tutti insieme, chi più chi meno, hanno provocato, o almeno non hanno impedito, questo tragico disastro godendo di un potere superiore alle loro capacità e di uno stipendio superiore ai loro meriti.

Questi esponenti hanno dilapidato un patrimonio immenso di lotte, esperienze, ideali e speranze tradendo spudoratamente quel popolo di emarginati, precari, proletari e proletarizzati che cresce proprio mentre il Pd, suo naturale difensore, scende ai minimi storici. Il fatto che Zingaretti abbia messo a nudo il fallimento del Pd proprio nello stesso giorno in cui l’Istat annunziava la crescita esponenziale dei poveri (cioè dei potenziali, naturali, legittimi militanti di sinistra) dimostra il divorzio dalla massa sconfinata degli sfruttati che il Partito Democratico ha sciaguratamente provocato per flirtare con gli sfruttatori, potenti ma pochi e infidi per definizione.

Non ho la caratura intellettuale, la potenza retorica e la risonanza mediatica di Pasolini. Ma riesco a vedere in tutta la sua gravità il triplice décalage tra la statura dei Moro e dei Fanfani nel 1975, quella dei Veltroni e dei D’Alema nel 2000 e, ora, quella degli attuali esponenti del Pd. Come pure, mi sembra chiaro il crescendo di omertà che questi ultimi hanno chiesto ai cosiddetti intellettuali di sinistra, ottenendolo.

Del fitto elenco di imputazioni che Pasolini esibiva quarantasei anni fa contro i leader democristiani, oggi molte potrebbero essere ascritte pari pari ai leader del Pd, ormai incistati nel governo: disprezzo per i loro elettori e per i cittadini tutti; contributo alla degradazione antropologica degli italiani; disinvolta manipolazione del denaro pubblico; intrallazzo con gli industriali e i banchieri; distribuzione borbonica delle cariche pubbliche; corresponsabilità nella delittuosa stupidità della televisione, nel collasso della scuola, della sanità e della cultura.

A questi capi d’accusa pasoliniani, altri dovremmo aggiungerne a nostra volta: aver ripudiato categorie potenti come classe, proletariato, rivoluzione; avere liquidato giornali, riviste, sedi e simboli della sinistra; avere abiurato la sua storia, le sue teorie e i suoi “classici”; aver secondato la distruzione dell’ambiente; avere affidato cariche delicatissime a inetti; aver garantito posti di governo e di comando a farabutti; avere cospirato contro i Marino e i Bassolino; aver trattato con ebete spocchia i potenziali alleati; avere varato interi pacchetti di leggi contro i lavoratori; avere delegato ai lager libici e turchi il contenimento dell’emigrazione; aver costruito in Italia altri lager in cui stivare gli immigrati; aver consentito l’incancrenirsi della condizione carceraria; avere abdicato al ruolo pedagogico del partito, lasciando in balia dell’apostolato leghista e fascista la classe in sé dei proletari vecchi e nuovi; avere sprecato tutti questi anni senza reclutare e preparare una giovane classe dirigente, rilanciare una contestazione intransigente, reinventare le forme di partecipazione e di consenso. Insomma, avere consentito in Italia, o non avere ostacolato a sufficienza, il trionfo del neo-liberismo.

Dietro tutto ciò resta l’incapacità di questi leader di capire che la forma “industriale” di potere da essi incarnato è del tutto inadeguato alla società “postindustriale”, e che i nuovi poteri finanziari globalizzati più non sanno che farsene di loro perché ormai gli occorrono i Draghi in salsa gollista.

Se, dunque, la colpa principale dei tracotanti leader democristiani era di essere corrotti, questa degli scialbi leader del Pd è di essere inetti, incapaci di capire che, nella sua contrapposizione epocale alla socialdemocrazia, il neo-liberismo provoca l’aumento spaventoso delle disuguaglianze e la proletarizzazione della classe media offrendo a un partito autenticamente progressista la grande occasione di scovare, formare, organizzare e guidare una massa immensa di vittime del progresso, da scagliare contro i suoi sfruttatori.

Ma c’è di più. Il socialismo reale sapeva distribuire la ricchezza ma non la sapeva produrre; il capitalismo attuale sa produrre la ricchezza ma non la sa distribuire. Inoltre l’economia disarciona la politica e la finanza disarciona l’economia. Dunque, se anche i leader del Pd, nei loro molti anni di governo, fossero riusciti a creare scuole efficienti come in Inghilterra, un welfare generoso come in Scandinavia, un tasso di occupazione elevato come in Germania, tuttavia avrebbero mancato il vero bersaglio storico della sinistra se non avessero trasformato il nostro Paese in un laboratorio capace di concepire un nuovo modello politicamente giusto di socialdemocrazia postindustriale, da sperimentare qui e da proporre al mondo intero. Così, nel primo articolo della Costituzione e nella pratica quotidiana di ogni italiano, “vita attiva” e “felicità” avrebbero preso il posto oggi occupato dalla parola “lavoro”.

È necessario lottare – purché con durezza intransigente preparata in anni di militanza – per l’equità fiscale, la riforma della Pubblica Amministrazione, il reddito di cittadinanza, il blocco dei licenziamenti, la giustizia, i vaccini, ecc. Ma si tratta, comunque, di altrettanti tasselli parziali di un mosaico necessario e tuttavia inesistente. Il compito che toccherebbe al Pd va ben oltre e consiste nel disegnare il mosaico tutto intero per tradurlo in una ideologia incandescente da prospettare alla massa degli sfruttati come una road map della marcia necessaria per uscire dalla marginalità rapidamente, nei tempi umani di una rivoluzione, non in quelli infiniti delle riforme.

Ma per elaborare un simile modello-ideologia, indispensabile e salvifico per il Pd come per la società tutta intera, sarebbe necessario un fecondo rapporto sinergico con intellettuali generosi e visionari. Invece questo Pd – a differenza del Pci di Gramsci e di Togliatti – non ha mai alimentato un simile rapporto, ben sapendo la sua cricca dirigente che l’adesione a un modello di tale potenza innovativa avrebbe comportato l’azzeramento di se stessa.

Eppure, solo dopo questo azzeramento, accelerato da un processo ai responsabili dell’attuale, tragico, imperdonabile fallimento della sinistra, la sinistra può riconoscersi e reinventarsi.