(Luciana Grosso – linkiesta.it) – Possono dieci anni di crisi economica, mandare in rovina un patrimonio che ha millenni di storia? No, senza dubbio: ci vuole ben altro a buttar giù colonne che resistono da 3000 anni, Ma un decennio di crisi economica può mettere a repentaglio la tutela e la valorizzazione dei monumenti, perché la mancanza di finanziamenti rallenta la manutenzione, il ritrovamento di altri reperti e, soprattutto, stronca sul nascere le carriere di giovani e nuovi archeologi, costretti, dalla crisi, a mettere la loro laurea in un cassetto per cercare un altro lavoro.

È più o meno questo quello che è successo nella Grecia dell’ultimo decennio, costretta dalle necessità della coperta corta dei suoi conti pubblici, a trascurare la sua più grande ricchezza, ossia il patrimonio archeologico.

I tagli alla spesa per il patrimonio antico, con un’incidenza che andava tra il 30 e il 50% a seconda delle voci, furono, per forza di cose, decisi, dopo il 2009, ossia dopo che il calderone del debito greco fu scoperchiato e dovette intervenire la Troika a prescrivere al Paese tagli e riforme tanto efficaci quanto impopolari. Tra il 2009 e il 2019, sono stati anni terribili in Grecia, nei quali nelle casse pubbliche non c’era di che pagare pensioni e stipendi, e nei quali (comprensibilmente) la spesa per l’archeologia fu tagliata pesantemente: via i fondi per gli scavi, via quelli per la gestione dei musei, via quelli per il personale.

Secondo ELSTAT (l’ISTAT greca) negli anni della crisi gli scavi finanziati si ridussero da 3200 a 1200 nel giro di circa 5 anni; di conseguenza diminuirono i ritrovamenti, passati dai 75 mila all’anno del 2014 ai 37 mila del 2016. In compenso a crescere in modo verticale, nello stesso periodo, furono i furti dei tombaroli, le cui denunce (ossia solo una parte del tutto) passarono dai 128 casi denunciati nel 2011 ai 309 del 2013. Anche il personale in servizio in musei, università e soprintendenze fu tagliato drasticamente.

Lo studio Crisis, austerity measures and beyond, pubblicato da Cambridge University nel 2018, riporta un quadro piuttosto preciso dei danni, in alcuni casi permanenti che il forte indebitamento nazionale promosso dalla classe politica greca e le conseguenti politiche di austerity hanno lasciato sul patrimonio archeologico greco, concentrandosi soprattutto sui tagli al personale e all’occupazione nel settore: «I professori di archeologia, a livello nazionale, sono passati dai 140 del 2008 ai 72 del 2014, con una riduzione di quasi il 50% in sei anni. Il personale del Servizio Archeologico fu ridotto, nel giro di una notte, del 10%, per effetto di un prepensionamento di massa. Gli stipendi di chi è rimasto sono stati tagliati e questo ha significato, da un lato, che l’archeologia di stato greca aveva perso improvvisamente la maggior parte del suo personale senior esperto e, dall’altro, che i laureati in archeologia, si sono trovati davanti un mercato del lavoro sull’orlo del collasso assoluto, senza nuove aperture per lo spazio di quasi un decennio».

Una situazione assai grave che, in parte, è stata compensata dagli stanziamenti legati ai Megala Erga, quelle che in Italia si chiamano grandi opere, tra le quali spicca il Tap, l’enorme gasdotto che taglia in due l’Asia Minore e arriva sulle coste pugliesi. Secondo i dati pubblicati sul sito di TAP, nel corso degli scavi per il gasdotto sono stati portati alla luce (tanto da smuovere finanziamenti europei per 14 milioni circa), 400 siti di interesse archeologico nei quali hanno lavorato circa 2000 archeologi.

Scavi i cui risultati, però, rischiano di cadere nel vuoto, se la struttura pubblica greca non sarà capace di gestirli e valorizzarli, ora che la fase peggiore della crisi del debito è passata e il problema di manutenzione ed esposizione resta ancora sul tavolo. È solo di poche settimane fa la notizia dell’allagamento del palazzo di Malia, a Creta, dovuto a forti piogge; così come è cronaca il fatto che parte dei danni subiti dai reperti di Kos per un terremoto nel 2017 non sono ancora stati ristorati.

Spese straordinarie cui, almeno per ora, non si è potuto fare fronte e che si affiancano a quelle ordinarie rispetto alle quali il Paese appare in ritardo, poiché gran parte dei musei e dei parchi archeologici (specie fuori da Atene) appaiono ancora senza servizi complementari come caffetterie e bookshop. Mancanze che solo a un occhio frettoloso possono sembrare non essenziali e vagamente profanizzanti dell’esperienza sacrale della visita a un sito archeologico, ma che in realtà ricoprono un ruolo fondamentale nella gestione e della protezione di siti e tesori antichi.

In Italia per esempio, dalla vendita di calamite da frigo e libri all’interno di musei, pinacoteche e parchi archeologici, arrivano un terzo dei proventi del settore. Generando introiti che poi consentono ai musei di coprire spese che i soli biglietti non potrebbero finanziare. E che magari, chissà, potrebbero aiutare la Grecia a evitare eventuali future crisi.