Si chiude un anno di passaggio e di promesse non mantenute. Il primo obiettivo del 2026 sarà la riforma della legge elettorale. L’incognita di Lega e Forza Italia, sempre più in ebollizione

(Giulia Merlo – editorialedomani.it) – I momenti di passaggio non sono mai buoni per i bilanci, e il 2025 per il governo di Giorgia Meloni è stato proprio questo: l’anno dell’equilibrismo internazionale tra l’Unione europea e gli Stati Uniti, del pareggio con il centrosinistra nelle elezioni regionali e delle schermaglie tutt’ora irrisolte dentro la sua coalizione, con Lega e Forza Italia che si contendono il secondo posto con distacco da Fratelli d’Italia.
L’anno si chiude in affanno, con una Manovra approvata in extremis, dal respiro corto e al risparmio (appena 22 miliardi di euro) e dopo turbolenze interne, con la Lega sempre più decisa ai distinguo rispetto alla linea della premier e decisa a farli pesare per ottenere dividendi sia politici che elettorali.
Gli ultimi 365 giorni, del resto, hanno dimostrato quale sia lo standing dell’esecutivo: la premier davanti, lanciata sullo scenario internazionale come prudente mediatrice e invece decisa a usare il pugno duro sul fronte interno. Dietro di lei tutti gli altri, dai ministri ai vicepremier: tutti con la loro personale agenda e che lei deve richiamare ciclicamente all’ordine.
Così, il 2025 si chiude con molte promesse non mantenute: due riforme su tre sono ferme (il premierato impantanato su un testo che non convince, l’autonomia differenziata smontata a fine 2024 dalla sentenza della Corte costituzionale), niente posa della prima pietra del ponte sullo Stretto; centri per migranti in Albania ancora bloccati e a rischio danno erariale; con i dazi di Donald Trump che zavorrano l’export italiano.
Unico successo, che sarà anche tappa fondamentale dell’anno che verrà: il via libera alla riforma costituzionale della magistratura, che sarà oggetto di referendum a marzo e di fatto è l’unica rivendicazione di sistema che il governo può vantare.
la nuova legge elettorale
Tutto, però, appare finalizzato a una strategia: rifiatare, in vista dell’anno che si preannuncia il vero momento della verità per il governo, che poi dovrà prepararsi alle elezioni politiche. Questa è già la prima incognita: a quando la data del voto? Scadenza naturale vorrebbe a ottobre 2027, ma è scontata l’anticipazione alla primavera per evitare la scomoda coincidenza con la legge di Bilancio. Eppure, c’è chi continua a sussurrare che si potrebbe votare anche prima, già nel 2026, se una serie di astri si allineeranno. Uno in particolare: la riforma della legge elettorale, visto che quella attuale «non garantisce stabilità», come ha ripetuto Giovanni Donzelli, ma soprattutto non garantisce la vittoria del centrodestra nel caso in cui il campo largo riesca a solidificare l’alleanza.
Sul fronte politico, dunque, questo è il primo obiettivo 2026: approvare una legge che sia, in concreto e senza toccare la Costituzione, la riforma dell’impianto istituzionale che doveva essere il premierato. Di qui la volontà di FdI di riaprire il cantiere costituzionale già a gennaio con l’obiettivo di legare a quel percorso – e così giustificare – la legge elettorale. Secondo chi sta seguendo il dossier, una bozza dovrebbe arrivare anche prima di marzo, con l’obiettivo di chiuderla entro un mese, contando sulla sponda di un Pd potenzialmente agevolato rispetto ai Cinque stelle da una legge che punta a imporre l’indicazione del premier sulla scheda. Le incognite sono molte, ma Meloni sa che attendere troppo sarebbe un azzardo ed è disponibile a trovare mediazioni, soprattutto con la Lega.
Le date in rosso
Ad oggi, tre sono le date cerchiate in rosso nel 2026. La prima è quella del referendum della giustizia, che si terrà a marzo e sarà il primo test elettorale sul gradimento dell’esecutivo. Meloni ha ripetuto che l’esito non influenzerà la tenuta del governo e questo è certamente vero, ma altrettanto certamente l’esito offrirà fondamentali elementi di valutazione: una vittoria netta del sì sarà il segnale rassicurante che la premier cerca; una vittoria del no – seppur ad oggi considerata difficile – sarebbe invece la dimostrazione che qualcosa si è silenziosamente incrinato. Una vittoria di misura, invece, sarebbe l’esatta dimostrazione del perché serva una nuova legge elettorale per poter tornare a governare. In tutti i casi, l’interpretazione dell’esito sarà politica e segnerà un punto di passaggio centrale nel correggere la strategia del governo.
Il secondo momento nodale sarà giugno 2026, con la conclusione del Piano nazionale di ripresa e resilienza e la verifica che tutti gli obiettivi siano stati raggiunti. Secondo quanto certificato dalla Corte dei Conti, l’economia italiana in questi anni si è tenuta a galla proprio grazie ai fondi europei (che sia Meloni che Salvini erano contrari a sottoscrivere) e, ora che sta per essere incassata l’ultima tranche, sarà necessario pensare a quale sarà la nuova via per far crescere il Pil e continuare a mangnificare la crescita economica sotto la guida del centrodestra. Parallelamente, poi, il governo dovrà trovare il modo di continuare a garantire quei servizi (con conseguenti posti di lavoro) che il Pnrr ha indirettamente prodotto: un esempio, nel mondo della giustizia, sono i 12mila precari assunti a tempo determinato nell’Ufficio del processo, il cui futuro è ad oggi incerto.
Ultima data fondamentale è esattamente ad un anno da ora: la legge di Bilancio 2027 sarà l’ultima prima del voto, la prima dopo l’uscita dalla procedura di infrazione e dunque quella in cui elargire mance, ridurre le tasse, trovare spazio per i bonus. In una parola, dovrà essere la manovra espansiva che quella di quest’anno non è stata e avrà l’obiettivo di convincere gli elettori che un altro quinquennio meloniano sia la miglior prospettiva possibile. Con la solita incognita, però, a rischiare di guastare i piani della premier: che gli alleati, come è già stato quest’anno, si mettano di mezzo.
Lega e Forza Italia
Proprio la potenziale instabilità degli alleati rischia di diventare un problema per Meloni. Matteo Salvini e Antonio Tajani, stretti sotto l’ombrello meloniano che tutto catalizza sulla leader, si trovano con due fastidiosi Pierini in casa. Da una parte l’ex governatore del Veneto, Luca Zaia, affascinato dal progetto di staccare la Lega del Nord e confederarla con quella nazionale. Dall’altra il governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, che ha lanciato la sua corrente e risponde all’input di Piersilvio Berlusconi di un rinnovamento degli azzurri. Entrambi dicono di non voler insidiare i leader, almeno uno – Occhiuto – è però deciso a candidarsi al prossimo congresso. Fin tanto che il governo Meloni sarà in carica, i due vicepremier rimangono blindati in virtù del loro ruolo nell’esecutivo. L’assalto, però, rischia di scattare quando si comporranno le prossime liste per le politiche e questa consapevolezza influenzerà le mosse di Tajani e Salvini, anche in relazione alla postura da tenere con Meloni.
Se sotto l’albero di Natale del 2025 Meloni ha potuto mettere la «stabilità», sotto quello del prossimo anno servirà una parola d’ordine più di impatto per convincere gli elettori. Eppure, l’anno per lei si chiude con una nota positiva: secondo i sondaggi dell’istituto Piepoli, FdI è al 32 per cento, con una crescita dell’1,5 per cento rispetto a gennaio 2025. La tenuta conferma che, nonostante le poche promesse mantenute, l’elettorato sta ancora accordando a Meloni fiducia e soprattutto tempo. L’interrogativo è ancora per quanto.
Il governo dei clic sfama l’elettore
La destra riconosce l’onda emotiva, la cavalca e la asseconda seguendo le convenienze. Senza limiti nel dire, nel disdire, nel ripetere. Basta mostrare soluzioni veloci: nel flusso non c’è tempo per ricordare
(di Pino Corrias – ilfattoquotidiano.it) – Cerchiamo nelle profondità del sociale le ragioni delle destre che sbancano, delle sinistre che arrancano, delle bugie che dilagano, degli elettori che arretrano, dei prepotenti che avanzano.
E se la risposta non stesse laggiù, ma proprio qui, nella tasca laterale della giacca, in questa cosa che all’apparenza dorme e invece se interrogata da 80 a 150 volte al giorno (come dicono i dati) si accende di luce propria, si spalanca come un abbraccio e ci risponde? Addestrandoci al boccone immediato ogni volta che abbiamo fame. Al sorso di informazioni ogni volta che abbiamo sete. Una goccia di dopamina alla volta. Compresa l’illusione di sapere il necessario, cioè quello che ci serve qui e ora.
Se vale nella vita quotidiana, perché non dovrebbe valere altrettanto in quella pubblica, governata dalla politica? Anche lei deve fornirci risposte con la stessa prontezza che garantiscono Google, l’IA, le folate insonni dei social. La prontezza è un diritto, la lentezza un residuo. I tempi morti producono insoddisfazione e ansia. Diventano intollerabili. Come lo sono sempre di più la complessità, il dubbio, l’esitazione. Tutti arnesi che volentieri maneggia la sinistra quando argomenta, sottilizza, distingue, specialmente se parla al suo interno, per dividersi in cento specchi. E finendo per essere così autoreferenziale da dimenticarsi di trovare connessioni emotive e narrative con chi dovrebbe ascoltarla.
Meglio una notifica di una predica. Una promessa rassicurante, invece di una ipotesi: bloccheremo il Mediterraneo con le navi, che ci vuole? Le strade saranno sicure, più leggi, più polizia. Taglieremo le tasse e l’economia crescerà. Aboliremo la Fornero, andremo tutti prima in pensione. Con noi ogni famiglia sarà felice.
Idiozie? Mica tanto se è la velocità a garantirle. Se non hai limiti nel dire, nel disdire, nel ripetere. Se sei rapido a indicare una direzione, una soluzione, a riconoscere l’onda emotiva. Per assecondarla seguendo le convenienze. E a cavalcarla come ha imparato a fare la destra. Ieri con Berlusconi, oggi con Giorgia Meloni, dentro a un comune riverbero politico che connette l’Ungheria di Orbán all’America di Trump, la Francia di
Marine Le Pen alla Spagna di Abascal e alla Germania di Afd. Tutti maneggiando messaggi brevi, emotivi, identitari, risolutivi. Tanto da diventare non solo ideologia dilagante, ma anche soluzioni operative. Proprio come offre la Rete che ci portiamo in tasca.
Analisi sociali complesse come il celebre Alone together di Sherry Turkle (2011) aggiornato e tradotto in “Insieme ma soli” (2020) ci spiega che la semplicità del meccanismo – chiedo e ottengo in un clic – ha moltiplicato con la sua velocità la potenza dello smartphone, che ormai “plasma il nostro modo di pensare, desiderare, pretendere”. In meno di vent’anni è diventato la principale interfaccia tra l’individuo e il mondo.
Dal suo schermo tascabile passano le notizie, le cose desiderabili e quelle detestabili, le proteste e le campagne, le delusioni, l’indignazione, la rabbia e il suo risarcimento emotivo. Tutto on demand. Tutto immediato. Tutto certificato da una risposta che non chiede verifiche, le garantisce in velocità. Perché nel frattempo “l’attesa è diventata una condizione intollerabile”. Una insofferenza che in pochi anni si è trasferita nella sfera politica. Dove vince la semplificazione sulla complessità, il flusso di molti messaggi sulla coerenza dei messaggi tra loro, l’ammirazione per la linea corta del comando, rispetto a quella lunga della concertazione.
È il nuovo “paradigma della immediatezza digitale” che offre visibilità, prossimità, reattività. E chi è più bravo a garantirle – meglio ancora a soddisfarle – sbaraglia la concorrenza. Magari non per sempre. Ma qui e ora sì, chi se ne frega della coerenza.
Giorgia Meloni ha promesso il taglio delle accise sulla benzina e le ha aumentate. L’alleggerimento delle tasse e le ha appesantite. Il blocco dell’immigrazione e i numeri la smentiscono. La lotta alle élite che invece sono diventate alleate. Peggio di lei solo Salvini che a forza di promettere la costruzione del Ponte e la distruzione della Fornero, ha mandato in malora i treni e incidentalmente i conti della Lega.
Ma lo scroll continuo delle notizie a cui ci ha abitualo lo smartphone, fa in modo che la responsabilità e la titolarità di una promessa, duri quanto un trend. Oggi vale. Domani forse. E comunque si troverà un nemico a cui addossare la colpa dell’inciampo: i giudici, i mercati, la sinistra, l’Europa. È sempre sufficiente “reimpostare la narrazione” con l’uso strategico della saturazione mediatica, come fanno Putin, Netanyahu e Trump usando i missili, Xi Jinping con la sorveglianza totalitaria, Orbán predicando ai suoi 500 organi di disinformazione nazionale. Nel suo piccolo, la Meloni si arrangia mimandosi underdog in villa, un ossimoro che produce più ammirazione che disappunto, mentre Salvini campa palleggiando con il presepe, il rosario, i migranti.
Se il flusso è continuo, non c’è tempo per ricordare, verificare, indignarsi. Tanto più che l’appartenenza si fonda sulla identità simbolica. È la fede emotiva che dà sostanza ai populismi, dove la razionalità conta meno di niente, come s’è visto in quella maestosa messa in scena funebre per la morte di Charlie Kirk, un odiatore universale, celebrato come un santo. O alla festa di Atreju, passata dalle pozzanghere pagane del Campo Hobbit agli scintillanti applausi in stile Meeting di Comunione e liberazione. Con l’intermezzo musicale di nani, ballerine e portieri.
Controllando gran parte dei media e interamente l’agenda politica – con poca e marginale opposizione a sinistra – la comunicazione della destra di governo è diventata una performance di presenza, non una contabilità dei risultati. La benemerita ricerca delle incongruenze entra anche lei flusso, per essere spazzata via dal flusso. La politica dell’immediatezza funziona, Meloni non flette nei sondaggi. La sua comunicazione è personalizzata, familiare, non spiega, sorride, narra e connette. È un dispositivo di potere. È la nuova egemonia culturale che la destra ha già conquistato. Annettendosi non Dante o il Futurismo, ma il controllo dei media pubblici e gran parte di quelli privati. Colonizzando le autorità amministrative e le catene decisionali. Disarticolando i poteri di controllo, la Corte dei Conti ieri, appena possibile l’autonomia della magistratura e quella del Quirinale. Sempre più a destra, verso una deriva autoritaria, una società ingiusta. Che in assenza di contromisure, controproposte, controstrategie, governerà con un clic.
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Accidenti, Carrie, è uguale alla mia… 😳
Alla luce dello splendido articolo di Corrias, è inquietante…
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Grande Corrias …lo dicevo ieri spaccate TV e tel…. ci guadagnamo in salute!
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