Appunti per una postura apparentemente bestiale eppure sofisticata e – come tale – meritevole di ogni approfondimento.

(Di Gianvito Pipitone – gianvitopipitone.substack.com) – A volte mi sorprendo ad impersonare un castigatore di costumi, lo ammetto, magari nella versione del filosofo “castigat ridendo mores”. Più spesso, di uno di quelli che nel post-tutto si svegliano già stanchi dell’umanità. E pur sapendo quanto possa risultare antipatico l’uno e l’altro ruolo, non riesco a trattenermi. Mi consola il fatto che riservo a me stesso la stessa ferocia critica che applico al prossimo. Così almeno mi illudo di apparire, se non proprio empatico, quantomeno un po’ più autorevole. E forse meno stronzo. Almeno spero.
Il periodo delle vacanze è sempre quello in cui, allentati i pesi e i contrappesi della vita quotidiana, si viene fuori allo scoperto con una mente più libera, più nuova. Forse anche più attenta. Si ha più tempo per concentrarci sulle cose di tutti i giorni, che altrimenti scorrono troppo veloci e troppo automatiche per farci davvero caso. Ed ecco che non appena ci si muove in un ambiente diverso da quello abituale, si trova pure il tempo e la voglia di osservare ciò che ci circonda. Le persone, ad esempio.
Basta tendere un po’ l’orecchio a ciò che dicono per capire qualcosa in più di questi tempi così spaesati. Anzi, mi correggo: non c’è nemmeno bisogno di tenderlo, l’orecchio. Perché, se vi trovate in fila per un presepio, piuttosto che al supermercato, o dal macellaio, aspettando un turno che non arriva mai, oppure al parco, immersi fra squadriglie di genitori spingitori di passeggini seriali (arte di cui mi professo praticante anch’io), sarà praticamente impossibile non cogliere le innumerevoli perle di una genitorialità – per parafrasare Almodóvar – sull’orlo di una crisi di nervi.
Sarà la rilassatezza imposta dalle feste, sarà la maratona sociale cui siamo tutti un po’ costretti: l’impressione è che stiamo diventando tutti un po’ più Asini. E quando dico tutti, non escludo nemmeno il sottoscritto.
Asinità, sia chiaro, non nel senso collodiano di crassa ignoranza, quella – per capirci – delle orecchie d’asino che spuntavano a Pinocchio e ai bambini che marinavano la scuola. Non in quel senso. Ma nel senso tutto marsalese del termine. L’asino, dalle parti del Far East siculo, che è sempre la casa della mia giovinezza, è quasi un concetto filosofico, una categoria autonoma dell’Etica che non troviamo forse nemmeno nei filosofi che hanno scandagliato più a fondo l’animo umano. L’asino di ascendenza marsalese – individua uno stato dell’essere sofisticato, a metà fra stupidità, leggerezza, incuria di sé e della propria dignità, ma soprattutto incuria per gli altri. Mancanza di sensibilità, di misura, di garbo, di empatia, di attenzione verso il prossimo.
E non finisce qui. Perché tutto ciò è accompagnato da un movimento uguale e contrario: una sciatta esposizione di sé e delle proprie scarse risorse, una compiaciuta degradazione del proprio stato e, come se non bastasse, la ricerca dell’approvazione per questa sorta di catalessi mentale. Ecco, se proprio dovessi spiegarlo in due parole, l’asinita’ è quella mancanza di rispetto a trecento sessanta gradi, per tutti, compreso sé stessi, più … una surreale leggerezza d’animo che tutto giustifica.
È il trionfo dei tempi, direbbe forse Nietzsche che, nella sua mania di dissacrazione di tutto e tutti, qualche buona lezione ce l’ha pure lasciata.
Sarò stato sfortunato io, ieri, ma sembrava davvero che tutte le persone Asine dell’isola avessero deciso di darsi appuntamento al Bioparco di Carini, alle porte di Palermo. Un’impressione condivisa non soltanto da me – visto che potrei essere accusato di cherry picking per costruire ad arte il mio pezzo – ma anche dal gruppetto di amici con cui ho condiviso una lunga e (voleva essere ) rilassante passeggiata in uno degli spazi per bambini più belli e attrezzati della Sicilia.
Senza troppi fronzoli: nel giro di un paio d’ore – tra la “macchina del tempo” che ti catapulta nella preistoria tra dinosauri ruggenti, una fattoria ben tenuta con il cane della prateria e la mucca cinisara, la zona dei laboratori, seppure un po’ trascurata, il rettilario e infine la wild zone – siamo riusciti, da provetti cacciatori, a raccogliere un bottino niente male di Asinità allo stato puro. Cristallina.
Tanto che, alla fine del percorso eravamo così provati, oltre che increduli da cotanta asinità concentrata nello stesso luogo e nello stesso momento. Siamo stati sfortunati? Voglio davvero sperare di sì. E stavolta, concedetimi di grazia, qualche licenza, se possibile.
Cominciamo dal primo branco incontrato in libera deambulazione: spesso sono proprio i branchi a generare mostri. In mezzo a loro abbiamo distinto una coppia impegnata in una performance di asinità acuta. Rimproveravano la figlioletta, una bambina dagli occhietti scuri, vispi e intelligenti, per dissuaderla definitivamente dall’allontanarsi dal branco. E lo facevano con questa perla:
“Tesoro, non ti allontanare troppo. Hai visto quei bimbi? I loro genitori ti potrebbero rapire. Hai visto che hanno solo figli maschi? Ti potrebbero portare a casa con loro. Quindi …non ti allontanare e resta qua vicino a noi”
Una battuta che, se proprio doveva essere pronunciata, avrebbe richiesto almeno un velo di ironia per risultare meno tossica. Invece no: l’impressione netta era che si trattasse di una formula consolidata, ripetuta come mantra fai-da-te a ogni occasione utile.
Non credo peraltro ci fosse alcuna intenzionalità – nemmeno velata – di difesa del femminismo, patriarcato da decostruire, educazione all’autodifesa o riflessioni sul maschio dominatore. Tutte ipotesi teoricamente possibili, ma non in questo caso. Qua c’era solo una primordiale deterrenza, nell’iperbole: se ti allontani, l’uomo nero ti prende e ti porta via.
La prossima stazione del nostro safari umano si trova davanti al bar della piazza centrale del parco: un anfiteatro naturale, perfetto per raccogliere ogni teatralità che possa attraversare la mente dell’uomo asino.
Anche qui il tema è la deterrenza. Ma stavolta l’allontanamento paventato non è quello di una bambina, ma di un bimbo pacioccone e iperattivo. E la minaccia scelta dal padre era di quelle che, dalle nostre parti, hanno fatto scuola: “non ti perdere, che se viene Mammaddrau, ti acchiappa e ti porta via”.
Figura antica, radicata nel periodo dei corsari del Cinquecento, Mammaddrau – al secolo, Mohammed al Dragut – è l’uomo nero con cui intere generazioni del trapanese e del palermitano sono cresciute. Un corsaro arabo o turco, realmente esistito, che nel XVI secolo razziò più volte le coste siciliane. Da noi, inutile girarci intorno, la tradizione è cultura. E non sarà Sandman, né l’Uomo Nero, o tanto meno Freddy Krueger a turbare i sogni dei nostri bambini: da noi vince ancora Mammaddrau, a mani basse, con buona pace degli educatori montessoriani.
Appena il tempo di riprenderci da Mammaddrau, ed eccoci davanti a una flotta di passeggini circondati da bambini un po’ cresciuti e da una mamma che, per aura e postura, sembrava l’ape regina.
Attorno a lei, diverse mamme operaie, in ordine sparso. Mentre lei si beava della propria capacità di affabulazione. L’abbiamo intercettata mentre, venerata, distribuiva accoppiamenti come un’antica matrona, erede diretta del paraninfo ottocentesco: un mondo immobile, mai passato, in cui gli sposalizi si facevano per convenienza.
La sentiamo così declamare: “Manfredi e Sofia si sposeranno e avranno figli alti e biondi come loro. Roberto invece si sposerà con Giovanna: sono intelligenti, nati nello stesso mese e a entrambi piace andare a cavallo.”
Apriti cielo. L’associazione genera un trambusto di voci: c’è chi approva, chi protesta, chi si offende e chi strepita perché non ci sta. Così la tiranna, per riprendere le redini in mano, interviene in maniera definitiva: “No ragazzi, Giovanna non si può sposare con Manfredi. Perché a uno piace leggere e all’altra ballare. Sono incompatibili”
Qualcuno osa ricordarle che non è vero e che Manfredi fa anche pattinaggio artistico, e che quindi potrebbe pure cimentarsi con la danza. Ma la dispensatrice decide che no: troppo diversi nel carattere, e anche nel colorito. E dunque: “Lei è bruna, lui è biondo. Non possono funzionare insieme.” Amen.
Risultato: Giovanna scoppia a piangere e si allontana. Mentre altri bambini, timorosi ma curiosi, tornano a interrogare la pizia: “E io? Con chi mi sposo? E se poi non mi piace ? …”
Un gioco di associazioni divisivo, che a cinque o sei anni crea frustrazione, scorno, ferite all’autostima, sogni amputati. Il tutto per intrattenere i genitori, che a distanza, reggevano il moccolo senza rendersi conto che i loro bambini, in quel caos, non erano forse pronti a sostenere un gioco che chiedeva troppo alla loro emotività.
Ma il tour non poteva dirsi completo senza la Wild Zone. Da lì sentiamo un verso cavernoso, profondo, intermittente. Potrebbe essere un animale di grossa taglia. I miei figli pensano subito all’orso; qualcuno scommette sull’elefante. E invece no: nell’area giochi adiacente alla gru coronata, incontriamo la bestia più feroce dello zoo. Il padre orso.
Un energumeno grande e grosso che, a beneficio di telecamera e smartphone, decide di “giocare” con i figli propri e quelli altrui. Poco incline a comprendere dinamiche, tempi e sensibilità dei piccoli, l’organismo unicellulare ritiene che il buon esito del gioco consista nel riprodurre spaventosi versi cavernosi, lunghi e prolungati, oltre che trasformarsi in un orso impazzito: indossa il cappuccio del giubbotto come fosse un copricapo tribale, si investe delle posture dell’orso e comincia a inseguire i bambini alla spicciolata, arrampicandosi sullo scivolo, sulla torretta, voltandosi a destra e sinistra in una performance sempre più imbizzarrita. E imbarazzante.
Il problema è che il papà orso non si ferma mai. Anche quando il gioco è finito e i bambini non corrono più. Tronfio della sua possente voce cavernosa, continua a inseguire chi non vuole scappare e chi ha smesso di fingere paura. Intanto gli altri genitori lo riprendono, ammirati, e forse leggermente per sfotterlo un po’: sarebbe anche impossibile non farlo.
Noi invece passiamo oltre l’area giochi, trattenendo a fatica un cenno di disprezzo.
Perché tutto ciò? Perché snaturarsi cercando un palcoscenico festivo? Perché farlo sulla pelle dei bambini? Che cosa non abbiamo capito, noi genitori?
Mi ci metto pure io: perché nessuno di noi genitori è esente da errori. Ma com’è possibile che, invece di migliorare, l’essere umano arretri proprio su ciò che è sempre stato un compito primario della civiltà: insegnare ai figli a vivere, a dominare le emozioni, a rifuggire dalle paure, a fortificarsi. Giocando, sì, scherzando, certo, ma senza sollecitare debolezze, senza evocare paure inutili, senza trasformare l’infanzia in un palcoscenico estremo per mettere in scena uno spettacolo per adulti, in cerca di applausi.
Non sarebbe forse meglio, in questa fase delicata, ascoltare quello che hanno da dire, più che rubare loro la scena, parlare con loro piuttosto che recitare, comprenderli più che intrattenerli in modo inadeguato?
Ripeto, anche chi scrive ha fatto e continua purtroppo a fare errori nell’educazione dei figli. E non esiste una formula univoca per essere buoni genitori. Non c’è un libretto d’ istruzioni per essere un buon papà e una buona mamma. Ma è anche indubbio che il percorso parte dalla critica e dall’autocritica. Chi è incline a rivedersi, forse riesce a limitare i danni. Chi invece si crede Superman o Wonder Woman, e non si pone domande, è destinato al massimo degli errori futuri.
Quella che fin dall’incipit ho chiamato asinità è postura complessa e sfaccettata che andrebbe studiata in sociologia, e che io continuo a studiare e monitorare da un pezzo. Non mancheranno occasioni per tornarci su più avanti con lo studio di qualche altro aspetto.
Un concetto complesso che, come la linea della palma di Sciascia, temo possa espandersi. Mi auguro solo che, in questo caso, resti confinato ad alcune zone della Sicilia, dove probabilmente, la mancata correzione degli errori in passato, ha continuato a produrre modelli di questo tipo.
Eppure, mi piace pensare che ieri, al Bioparco di Carini, all’insaputa di tutti, si siano dati appuntamento tutti gli asini veri. Me compreso (anticipo la battuta). Perché il resto, tutti gli altri, i veri genitori, erano impegnati altrove a giocare in maniera sana con i propri figli.
PS: Auguri di buon anno! E che il 2026 ci riservi una migliore fortuna di quello appena trascorso.
Preferirei che la scelta degli articoli fosse migliore, magari attingendo anche ad argomenti economici (vedi Alessandro Volpi, Faceboook) o Alessandro di Battista (Scomode verità) o Tommaso Merlo (Bioblu). E magari se su un dato argomento mettete solo un articolo e non due, come qui sulla Corte dei Conti, sarebbe meglio. L’articolo qui sopra fosse per me sarebbe stato cestinato. Non aggiunge nulla alla mia conoscenza. Ne propongo invece un altro di ALESSANDRO DI BATTISTA
Il cosiddetto diritto di difendersi
Nel 2025 lo Stato terrorista di Israele non ha solo continuato a compiere un genocidio a pochi chilometri dalle nostre coste, ma ha continuato ad attaccare altri Paesi sovrani. Ed è per questo che ritengo Israele lo Stato più pericoloso del pianeta.
Secondo voi uno Stato che sostiene di doversi “difendere” può davvero riuscire, nello stesso anno, ad attaccare contemporaneamente Palestina, Libano, Siria, Iran, Yemen e Qatar, arrivando persino a colpire le acque tunisine, greche e maltesi?
Secondo l’Armed Conflict Location and Event Data Project (ACLED), osservatorio indipendente che monitora i conflitti in tutto il mondo mondo, fino al 5 dicembre 2025, Israele ha lanciato migliaia di attacchi: oltre 8.000 solo contro la Palestina, più di 1.600 contro il Libano, centinaia contro Iran e Siria, decine contro lo Yemen, fino ad arrivare a colpire anche Qatar e acque internazionali. E attenzione: questi numeri sono sottostimati, perché tengono conto esclusivamente degli attacchi effettivamente registrati.
Solo in Palestina parliamo di una media di circa 25 attacchi al giorno nel 2025.
La verità è che a Gaza i palestinesi ammazzati sono stati molto più di 70.000. Lo vedremo nei prossimi mesi, quando – come sta già accadendo – i corpi continueranno a essere recuperati dalle macerie.
Segnalo, inoltre, che proprio in queste ore Israele ha riconosciuto il Somaliland, diventando l’unica nazione al mondo a farlo. C’è chi ritiene che Benjamin Netanyahu (come già era stato ipotizzato mesi fa dai media israeliani) lo abbia fatto perché è lì che vuole deportare più di un milione di palestinesi.
In tutto ciò, mentre il sistema mediatico tenta di delegittimare chiunque continui a sostenere la causa palestinese (ripeto: me ne frego delle rappresaglie mediatiche e vado avanti per la mia strada), le tende in cui vivono i palestinesi vengono distrutte dal maltempo. Israele non fa entrare aiuti umanitari proprio per questo: perché sa che i palestinesi rischiano di morire di freddo e di fame. È per questo che oggi parlo di genocidio a bassa intensità. Le uccisioni dirette diminuiscono, ma sono state create le condizioni affinché i palestinesi fuggano dalla propria terra o muoiano lentamente nel silenzio del mondo.
Iscriviti a Scomode Verità
"Mi piace""Mi piace"
grazie Viviana, mi piace molto il modo in cui sente e vive il mondo che la circonda. Auguri.
"Mi piace""Mi piace"
Quando ci si imbatte per caso in un fiore leggiadro con il gambo addobbato da spine pungenti fin troppo edulcorate,occorre fare un’eccezione.
Un Pipitone da “periodo Prime”, che gioca in casa, tra un umorismo Pirandelliano e la teatralità di uno Ionesco miscelato a Beckett.Più Kafka meno Caracciolo:questa è la strada giusta.In bocca al lupo.
"Mi piace"Piace a 1 persona
Concordo.
"Mi piace""Mi piace"