La riforma della Corte dei conti è un tassello non piccolo verso il deragliamento della nostra democrazia costituzionale. Occorre mobilitarsi per fermare una maggioranza che detesta la Costituzione e vuole cambiare nei suoi punti nevralgici: le magistrature, il sistema di giustizia nel suo complesso

(Nadia Urbinati – editorialedomani.it) – Il peggiore governo della Repubblica. E non solo perché i salari sono al palo. In questi giorni di feste natalizie sta portando a termine la demolizione di un pezzo cruciale di governo limitato che avvia l’Italia verso un regime post-liberale, dove per liberalismo di deve intendere l’insieme degli istituti di garanzia con funzione di controllo e limitazione del potere politico.
Si parla della riforma della Corte dei conti (le norme relative alla magistratura contabile) un tassello non piccolo verso il deragliamento della nostra democrazia costituzionale. Una deforma, in effetti, che il presidente della Repubblica dovrebbe non firmare.
Riportiamo parte della dichiarazione dell’Associazione magistrati della Corte dei conti: «Oggi si scrive una pagina buia per tutti i cittadini: il Senato della Repubblica ha approvato la riforma della Corte dei conti, magistratura chiamata dalla Costituzione a garantire che le risorse pubbliche siano destinate ai servizi alla collettività e non siano sprecate, per imperizia o corruzione. Si tratta di una scelta che segna un passo indietro nella tutela dei bilanci pubblici e inaugura una fase in cui il principio di responsabilità nella gestione del denaro dei cittadini risulta sensibilmente indebolito».

Un regalo ai politici
Ci si deve chiedere che cosa i centristi, i liberali e i moderati dicano e facciano di fronte a questo scempio del principio di moderazione. Non dicono nulla o dicono pochissimo. Dimostrando di conformarsi allo stato di cose esistente e di tradire proprio quella moderazione di cui parlano con profusione ogni giorno.
La separazione delle carriere mandata a referendum e, ora, un’altra breccia che apre un’autostrada all’arbitrio concedendo ai politici più discrezionalità nell’uso delle risorse che provengono dalle nostre tasse e con meno rischi di essere perseguiti. Questa erosione della politica costituzionale è un regalo ai politici, con rischi di sprechi enormi nella spesa della pubblica amministrazione e che pagheremo noi.
Il magistrato della Corte dei conti Ferruccio Capalbo non poteva essere più esplicito: «Tutti noi cittadini saremo più nudi di fronte alla pubblica amministrazione e ai politici che potranno gestire i soldi nostri con grande nonchalance, senza rischiare nulla o rischiando pochissimo. È gravissimo». Senza rischiare o rischiare pochissimo, mentre noi rischieremmo in maniera sproporzionata.
Spiega così Capalbo la funzione della Corte dei conti: «Ha il compito di verificare che i soldi pubblici che affidiamo nelle mani di amministratori pubblici, politici, attraverso il pagamento di pesantissime tasse, vengano utilizzati in maniera corretta. Se quei soldi vengono sprecati, la procura contabile ottiene che quei politici restituiscano di tasca propria». Fa l’esempio di «rimborsopoli, tangentopoli, opere pubbliche inutili, strade rifatte e subito rotte». Cosa succederà con la nuova legge?

Chi rompe paga?
«Il principio chi rompe paga non ci sarebbe più». Ha senso parlare di una norma che fa l’opposto di quel che dovrebbe fare: ovvero «de-responsabilizza i politici». E il magistrato lo spiega: «Laddove chiedo a una persona dandogli i miei soldi di realizzare un obiettivo, ho il diritto di chiedere conto di come ha utilizzato quei soldi. E chiederne la restituzione nel caso in cui quella persona non dovesse realizzare l’obiettivo. Nella pubblica amministrazione dove confluiscono enormi quantità di risorse pagate dai cittadini, questo principio di responsabilità così non esiste più, è stato annacquato».
Noi abbiamo diritto di chiedere conto, non solo al momento delle elezioni, ma in corso d’opera. Questo governo sta costruendo uno scudo potente per sé, i suoi politici e funzionari pubblici di fiducia. E come avviene il risarcimento? Qualora si riuscisse a chiamare in giudizio un amministratore per sprechi enormi «non lo si potrà condannare se non a somme minime».
La conclusione di Capalbo è amara: «Rispetto a un’enorme mole di denaro pubblico proveniente dalle nostre tasse che ognuno di noi faticosamente paga, i politici potranno gestirlo come credono, non rischiando più o rischiando di pagare una somma minima».
È ora di dire basta! Basta a un governo che crea scudi per la propria impunità! Basta a un governo che detesta la Costituzione e vuole cambiare nei suoi punti nevralgici: le magistrature, il sistema di giustizia nel suo complesso. Con la prospettiva di un referendum che aprirebbe, se dovesse vincere, alla riforma delle riforme, quella che istituirebbe un regime dell’esecutivo. È ora di dire basta! Ci si mobilita per nobili cause morali. Questa è la causa nobile della nostra dignità di persone e di cittadini. Non si dovrebbe acconsentire a questo scempio.
Paolo Consiglio ·
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16 h ·
L’ombra di Israele. Quando le prove arrivano dall’esercito israeliano durante il massacro di Gaza: il caso Hannoun e il rischio per lo Stato di diritto italiano.
L’uso di materiali militari israeliani nei procedimenti contro attivisti solidali con la Palestina solleva una questione decisiva: può uno Stato accusato di genocidio fornire “prove” affidabili a tribunali democratici?
Non è una questione di simpatia politica, né di schieramento ideologico. È una questione di diritto, di metodo e di sovranità giurisdizionale. Quando un procedimento penale fonda parti essenziali del proprio impianto su materiali prodotti da un esercito impegnato in operazioni contro una popolazione civile, il problema non riguarda solo gli indagati. Riguarda la tenuta stessa dello Stato di diritto.
Una parte rilevante dell’impianto accusatorio nei procedimenti che coinvolgono Mohammed Hannoun e altri attivisti impegnati in attività di solidarietà con la popolazione palestinese si fonda su materiali elaborati dalle forze armate israeliane durante operazioni militari condotte nella Striscia di Gaza. Operazioni che non possono essere descritte come un conflitto armato tra eserciti, ma come un’azione unilaterale esercitata contro una popolazione civile priva di mezzi militari equivalenti, sottoposta ad assedio, bombardamenti e privazioni sistematiche.
Tali materiali provengono da uno Stato che non è parte terza, né osservatore neutrale, ma attore diretto delle condotte oggi sottoposte a scrutinio internazionale. Israele è destinatario di misure provvisorie vincolanti disposte dalla Corte Internazionale di Giustizia ed è sottoposto a un procedimento internazionale per il rischio di genocidio. Questo dato, pubblico e documentato, non può essere considerato irrilevante quando i suoi apparati militari producono documentazione destinata a incidere sulla libertà personale di cittadini residenti in Italia.
L’assunzione di tali materiali come base probatoria pone un problema strutturale di affidabilità e terzietà. Si tratta di documenti formati in assenza di contraddittorio, prodotti da un apparato militare direttamente coinvolto nelle operazioni oggetto di denuncia internazionale, in un contesto incompatibile con le garanzie minime del giusto processo. In queste condizioni, l’attendibilità non può essere presunta né automatica, ma avrebbe richiesto un vaglio particolarmente rigoroso, autonomo e indipendente.
Il rischio è quello di uno slittamento silenzioso ma grave: dalla cooperazione giudiziaria al recepimento acritico di materiale di intelligence militare. Un passaggio che trasforma informazioni prodotte in un contesto di sterminio e devastazione in presunti elementi probatori, senza che venga affrontato il nodo fondamentale della loro origine e della loro funzione politica.
Particolarmente allarmante è la qualificazione retroattiva di attività umanitarie come “finanziamento al terrorismo”, fondata sull’inclusione delle organizzazioni beneficiarie in liste predisposte da un governo straniero. In questo schema, l’etichettamento politico rischia di sostituire l’accertamento giudiziale: una definizione attribuita da un esercito viene assunta come presupposto di rilevanza penale, senza una verifica pienamente autonoma da parte dell’autorità giudiziaria italiana.
L’effetto complessivo è una rilettura unitaria e forzata di decenni di attività solidale, già oggetto in passato di valutazioni e archiviazioni, alla luce di presunti “nuovi elementi” forniti dopo il 7 ottobre 2023. Un clima di emergenza interpretativa che rischia di travolgere i principi di legalità, irretroattività e certezza del diritto, proiettando un sospetto penale generalizzato su condotte nate come espressione lecita di solidarietà.
Ciò che si delinea è un caso paradigmatico di lawfare: l’uso dello strumento penale come veicolo di una strategia politica esterna, in cui la narrazione prodotta da uno Stato accusato di crimini internazionali finisce per orientare procedimenti giudiziari interni. Un corto circuito istituzionale che mette in discussione l’indipendenza della funzione giurisdizionale e il confine, sempre più fragile, tra giustizia e pressione geopolitica.
In gioco non vi è soltanto la posizione degli indagati. È in gioco la capacità dell’ordinamento di mantenere una linea di separazione netta tra accertamento penale e assorbimento di materiali prodotti da apparati militari coinvolti in uno sterminio di massa. Quando questa linea si dissolve, la giustizia smette di essere sovrana e diventa permeabile alla guerra giuridica.
Richiamare questi principi non significa interferire con l’autonomia della magistratura, ma difenderla. L’accertamento penale deve fondarsi su prove verificabili, prodotte in contesti compatibili con il giusto processo, non su documentazione generata da chi è parte attiva di un massacro e sottoposto a scrutinio internazionale.
La solidarietà non è un reato. La critica non è terrorismo. E il diritto, se vuole restare tale, non può accettare che il suo linguaggio venga scritto da chi opera sotto accusa per genocidio.
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Domanda: MATTARELLA HA FIRMATO QUESTA RIFORMA?
Temo di sì, o sbaglio?
Bene.
A questo punto, di fronte ad una tale macroscopica p0rcata, ditemi voi: come può essere che il bis-presidente non sia chiamato corresponsabile di questo sfascio?
Dopo la figura della cdx ‘autonomia differenziata’ doveva fare solo una cosa: DIMETTERSI, avendo lasciato passare una legge che distruggeva l’unità nazionale, quella che questi politicanti impettiti festeggiano il 2 giugno con le frecce tricolori sopra e il carro armato davanti.
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Ma se il Custode per eccellenza della nostra Costituzione firmera’ questo ddl….allora…..allora……la domanda che dovremo porci sara’ una sola………..
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