Meloni, Giorgetti e la mina Salvini

(Flavia Perina – lastampa.it) – No, non è l’ordinario via vai di ogni fine anno in Commissione Bilancio: il caotico andamento del dibattito sulla manovra porta alla luce il lato oscuro della vantata solidità, stabilità, efficienza del governo di Giorgia Meloni, che è la fatica sempre più improba di tenere insieme la linea della responsabilità imboccata nel 2022 con le ambizioni e la voglia di rivincita di Matteo Salvini.

In pochi giorni due episodi rivelatori, su questioni di massimo livello. Prima la pioggia di dichiarazioni ostili all’Ucraina e favorevoli a un appeasement con i russi, che ha generato addirittura il dubbio di un possibile niet leghista al decreto che consentirà di continuare a rifornire Kiev di armi. E poi, la notte dell’ira al tavolo della legge di bilancio, con il capitolo pensioni cancellato sull’onda delle minacce leghiste – o sparisce o molliamo il governo – e il conseguente falò delle risorse promesse alle aziende.

Magari alla fine una soluzione si troverà, già si parla di un decreto per recuperare fondi e sostegni, e tuttavia la plateale sconfessione del ministro Giancarlo Giorgetti da parte del suo stesso partito racconta che qualcosa si è inceppato nel trantran della maggioranza.

Nel mirino leghista ci sono i principali elementi che hanno segnalato finora un alto livello di continuità tra il governo di Mario Draghi e quello di Giorgia Meloni, e di conseguenza il positivo approccio della gran parte degli interlocutori internazionali alla nuova premiership italiana. Il rifiuto di ogni neutralismo sulla questione ucraina, innanzitutto, con la famosa foto sul treno per Kiev (Draghi insieme a Olaf Scholz ed Emmanuel Macron in viaggio per incontrare Volodimir Zelensky) che vincolò l’Italia alle scelte dell’asse franco-tedescoMeloni ha agito in continuità con quella iniziativa, imbrigliando chi tra i suoi aveva nutrito aperte simpatie per Vladimir Putin e azzittendo del tutto Salvini. Adesso il Capitano si scioglie da quel patto, decreta la sconfitta ucraina, incassa i complimenti di Mosca: è la fine del tacito accordo di non ingerenza nelle questioni di politica estera che ha retto per 36 mesi.

Stesso copione per il rigore nella gestione dei conti pubblici che Meloni imboccò fin dalla sua prima e frettolosissima manovra, confermando Giorgetti al Mef e ponendosi come obbiettivo l’uscita dalla procedura di infrazione, anche a costo di deludere il suo elettorato che si aspettava di veder sgorgare vino dalle fontane con l’abolizione delle accise sulla benzina, della Fornero e di ogni odioso limite europeo alla spesa. Anche qui Salvini è rimasto silente per tre anni e ora rovescia il tavolo: di quella continuità è stufo, non ne vuole più sapere, non vede perché dovrebbe mortificare il suo imprinting anti-rigore, per di più a esclusivo vantaggio del buon nome della presidente del Consiglio.

In entrambi i casi le impuntature di Salvini hanno sortito effetti: più nascosti nella vicenda ucraina, dove un alto livello di funambolismo ha consentito alla premier di non smentire se stessa, ma del tutto evidenti nel capitolo manovra, dove margini di ambiguità non ce ne sono. Il Capitano si è messo di traverso e il governo è stato costretto a cedere. Il disconoscimento della linea della responsabilità tenuta finora non poteva essere più plateale ed è normale chiedersi cosa produrrà nel 2026, che cosa sta maturando nella maggioranza dietro al racconto della solidità, stabilità, efficienza che i fatti cominciano a smentire.