Il vertice di Berlino

(di Gustavo Zagrebelsky – repubblica.it) – I modi di dire, chissà perché, sembrano tanto più veri quanto più sono antichi. Non c’è chi, nel chiedere sempre più armi, non dica d’essere per la pace. Il suo motto è “se vuoi la pace, prepara la guerra”. Insomma, la guerra è pace, mentre la pace è guerra. È pura ed eterna verità o è purissimo ‘bispensiero’ orwelliano?

Morto Giulio Cesare (Idi di marzo), la Repubblica romana fu scossa dalle mire di Marco Antonio. Cicerone prese la parola in Senato (la settima Filippica) per convincere a muovere guerra contro di lui. Disse, più o meno, così (19, 7): non ch’io non sia per la pace, ma questa parola non ci impedisca di vedere il pericolo che corriamo. Perciò, facciamo guerra per scongiurarlo e non seguiamo gli illusi che confondono la pace con la capitolazione.

Nel lungo tempo dell’Impero romano, il “si vis pacem para bellum” diventò un luogo comune. Lo troviamo in un manualetto di guerra, scritto nel IV secolo da un funzionario governativo, tal Publio Vegezio (Epitoma rei militaris, 3, 14). I generali vincitori, celebrati in “trionfo”, erano figli di quel motto imperialista. Questa fu, nei secoli, la pax romana generata da guerre sempre da farsi per guadagnare e conservare l’Impero.

Oggi, alle stesse parole si dà un altro valore: non l’effettuazione, ma la prevenzione della guerra. La preparazione della guerra sarebbe il realistico presupposto della pace. L’amor di pace si dimostrerebbe correndo alle armi. Non c’è dittatore che, preparando la guerra, non abbia detto: è per la pace futura. La minaccia della forza difensiva può, in effetti, scoraggiare l’uso della violenza aggressiva. Tante più armi in giro, tanta maggiore sicurezza del mondo: nessuno potrebbe usare impunemente le sue. A condizione, naturalmente, che la distribuzione tra le diverse “potenze” sia in equilibrio. Allora, nessuna oserebbe scatenare un conflitto se prevedesse di uscirne sconfitta. È la “pace del terrore”, come quella miracolosamente perdurata nei decenni della “guerra fredda” (Cuba 1962 e incidenti vari tenuti nascosti), meglio comunque d’una guerra guerreggiata. La “corsa agli armamenti” sarebbe dunque il dovere sovrano di ogni Stato. La folle corsa, una volta incominciata, non finirebbe mai. Da soli o in coalizione, occorrerebbe sempre pareggiare o, meglio ancora, soverchiare i potenziali nemici.

La guerra, così concepita, sarebbe un grande wargame. Nelle teorie dei giochi si troverebbe la base scientifica dell’equilibrio cibernetico tra le forze in competizione che, attraverso il calcolo di azioni e reazioni plausibili, renderebbe non conveniente per tutte trattenersi dal farla scoppiare. Ma, ci si può fidare? Le teorie dei giochi sono azzardi basati su previsioni statistico-probabilistiche, pericolose sempre e pericolosissime quando le sfide sono mortali. L’affidabilità dipende da tre (anzi quattro) condizioni, tutte inesistenti quando si parla di pace e di guerre reali, non virtuali. La prima è che gli intenti, da cui dipende la razionalità e la prevedibilità delle azioni dei diversi attori, siano omogenei. La seconda è che ognuna sia perfettamente a conoscenza della consistenza degli armamenti altrui. La terza è il numerus clausus delle armi, cioè che nessuno possa crearsene a proprio piacimento e, così, alterare unilateralmente gli equilibri tra i giocatori.

C’è poi la quarta condizione, la più incerta, che i giocatori possano fare conto su una dote comune tutt’altro che scontata tra i despoti: che non si abbia a che fare con pazzi fanatici.

Nessuna di queste condizioni esiste nel “gioco” in questione, ciò che spiega perché, nella storia, gli equilibristi tra pace e guerra hanno sempre finito per cedere alla guerra. Quanto alla prima condizione — l’obiettivo comune — nei “giochi di società” si è concordi sul perché si gioca. Nella guerra, ognuno sceglie il proprio: nuovi territori, risorse naturali, liberazione e annessione di popolazioni, dominio razziale, gloria nazionale e riscatto da umiliazioni, difesa di identità nazionali, cementificazione di oligarchie fameliche di potere, eccetera. Che cosa attira o respinge un popolo, una nazione, un governo nel muovere guerra o nel trattenersi non è qualcosa che possa assumersi come un dato comune su cui innestare azioni razionali che si incontrano e si equilibrano. Se Hitler avesse avuto a disposizione l’arma atomica, l’avrebbe probabilmente usata per il suo Reich millenario. Truman la usò, perché aveva in mente altri progetti. La teoria dei giochi avrebbe permesso di trovare un equilibrio tra i due?

Anche la seconda condizione è improbabile: ogni “giocatore” nello scenario della guerra è inevitabilmente portato a trasferire agli altri le sue ambizioni, come se i soggetti fossero mossi da medesime motivazioni. Ma le guerre prendono origine, per l’appunto, dall’eterogeneità e dall’incolmabilità delle distanze delle ragioni degli uni e degli altri.

La terza condizione, infine, è indeterminabile poiché la tecnologia della guerra è sempre in movimento e ciascun “giocatore” tende a promuovere lo sviluppo della propria, oltretutto cercando di coprirla del più rigoroso di tutti i segreti, il segreto militare. Così, le “regole del gioco” in guerra vanno in fumo e variano a seconda della potenza di ciascun giocatore e la possibilità di imporre le proprie, se sono forti, e l’eventualità di subirle, se sono deboli: tutto il contrario della lealtà che deve contraddistinguere, oltre che rendere possibili, i giochi che meritano questo nome.

Quando si gioca a un gioco, si può vincere o perdere. Quando “si gioca alla guerra”, soprattutto alla guerra che si avvale di strumenti di distruzione come quelli attuali, non si può perdere. Quando “si gioca alla guerra” si deve essere pronti a tutto, a usare qualunque mezzo, arma, inganno, sotterfugio. Non è vero, dunque, che il si vis pacem… possa renderci tranquilli. Non esistono le condizioni per poterlo sperare. Chi si prepara alla guerra dicendo che lo fa per evitarla, in realtà è disposto a farla e, se è disposto, la farà. Se non fosse disposto, dove starebbe la deterrenza?

E allora? Al motto mentitore, diffusivo di guerre, opponiamone un altro, altrettanto antico, che viene dalla sapienza biblica. Dice così: su tre cose si regge il mondo, la verità, la giustizia, la pace. La verità genera la giustizia e la giustizia porta la pace. Al contrario: la menzogna genera l’ingiustizia e l’ingiustizia porta la guerra. Per combattere il flagello delle guerre c’è molto da fare, ma predisponendo le condizioni della pace.