Il bavaglio al dissenso

(di Michele Ainis – repubblica.it) – Uno scandalo che costantemente si ripete non cessa d’essere uno scandalo. È il caso, per esempio, della manovra finanziaria. Difatti anche quest’anno il panettone della legge di bilancio giungerà alla Camera fra Natale e San Silvestro; sicché i nostri deputati dovranno digerirlo senza avere il tempo di scartarlo dalla sua confezione. L’anno scorso toccò al Senato, di lavorare (si fa per dire) con le ore contate: la par condicio degli abusi. Monocameralismo alternato, lo chiamano così. Nel senso che una volta s’esercita la prepotenza su una Camera, la volta dopo su quell’altra. Succede pure con i decreti, che vanno convertiti in legge entro sessanta giorni dal Parlamento. Succede sempre, quando la Costituzione impone una scadenza.

Anche a costo di violare le scadenze altrui, anche a costo d’imporre un bavaglio al capo dello Stato. Lui avrebbe un mese di tempo, per decidere la promulgazione (o il rinvio) degli atti legislativi. Ma come fa, se gli arrivano sulla scrivania all’ultimo minuto? Come può valutarne la legittimità costituzionale, come può rappresentare i propri dubbi al Parlamento chiedendone una nuova deliberazione, se in questi casi il giallo del semaforo si trasforma giocoforza in rosso? Il rinvio presidenziale d’una legge di conversione dei decreti, quando mancano soltanto pochi giorni al termine finale, significa la cancellazione definitiva del decreto, azzerando pure le sue norme utili, insieme a quelle inutili o sbagliate. Il rinvio della legge di bilancio a ridosso del 31 dicembre significa innescare l’esercizio provvisorio del bilancio, con tutti i guai che ne conseguono. È un ricatto, per dirla con parole crude: un prendere o lasciare.

D’altronde il bavaglio si stringe anche sul muso dei parlamentari. Anzi un doppio bavaglio: maxiemendamento e voto di fiducia. Succederà pure stavolta, perché così si tagliano i tempi della discussione, perché così si mettono a tacere le voci di dissenso nell’ambito della stessa maggioranza. Di conseguenza i parlamentari non possono discutere, correggere, emendare i testi licenziati dal governo (l’ultima variazione, per mano del ministro Giorgetti, è del 16 dicembre, e vale 3,5 miliardi). Ma forse non possono nemmeno leggerli, se non dispongono d’un traduttore. Un solo esempio: l’articolo 13, che interviene in modo criptico sulle criptovalute. Dice così: «Le disposizioni di cui al primo periodo si applicano… ai redditi diversi e agli altri proventi di cui alla lettera c-sexies del comma 1 dell’art. 67 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, derivanti da operazioni di detenzione, cessione o impiego di token di moneta elettronica denominati in euro, di cui all’art. 3, par. 1, n. 7, del regolamento Ue 2023/1114».

La chiarezza delle leggi, anche su materie tecniche e complesse, costituisce una forma di rispetto: per i parlamentari che devono votarle, per i cittadini che devono applicarle. E l’osservanza dei tempi stabiliti è una forma di rispetto per la democrazia, per la sua grammatica, per i suoi valori. Solo i tiranni regnano a tempo indeterminato; solo i regimi calpestano le procedure regolamentari. Quanto alla legge di bilancio, sta di fatto che i termini fissati dalla legge di contabilità e finanza pubblica non vengono mai rispettati. Tanto che nel 2019 la Consulta alzò la voce contro le distorsioni procedurali che infettano ogni manovra finanziaria. Di questo passo – disse – verrà raggiunto «quel livello di manifesta gravità» che rende incostituzionale la stessa legge di bilancio.

C’è una violenza, insomma, in questo modo di procedere. Contro le istituzioni, se non contro le persone. E il fatto che l’andazzo duri ormai da tempo non è una giustificazione. Anche perché il governo in carica sta abusando dell’abuso. Esordì alla media di un voto di fiducia ogni 11 giorni, sommando 47 questioni di fiducia nei suoi primi 18 mesi, un record. E nei primi tre mesi d’esistenza mise in pista 15 decreti legge (addirittura tre in un giorno solo: il 10 gennaio 2023), un altro record. Sarà per questo che gode dei favori popolari: secondo l’ultimo Rapporto Censis il 30 per cento degli italiani guarda con favore alle autocrazie, «più adatte allo spirito dei tempi». Ma sono tempi spiritati.