(Bartolomeo Prinzivalli) – Di Maio rappresenta per circa la metà dell’elettorato, quello che non vota più, il prototipo del politico italiano: furbo, opportunista, privo di scrupoli.

Ha saputo cogliere un’opportunità, forse inizialmente persino in buona fede, e ne ha fatto un trampolino per la carriera individuale, sacrificando senza alcun rimorso reputazione e rispetto di coloro che in lui riponevano ogni speranza.

Ha cavalcato l’onda del cambiamento diventandone alfiere ed è stato lesto ad imparare quali slogan fossero più efficaci, quali parole risuonassero maggiormente nelle orecchie di un popolo stanco di essere sfruttato maltrattato e deriso in modo da poterlo truffare per l’ennesima volta.

Ha assaporato il potere che giurava di combattere divenendone estimatore, dipendente, infine succube; per raggiugere tale scopo ha tradito ogni sguardo, supporto, faticoso contributo di chi si era illuso che in Italia una rivoluzione pacifica e reale fosse possibile.

Come c’è riuscito?

Un po’ per merito suo, mettendo a frutto la tipica furbizia di chi sa insinuarsi in ogni spiraglio riuscendo nel contempo a distinguersi fra schiere di contendenti ed ostacolando eventuali rivali, ma molto per colpa di un popolo di creduloni che dall’idea iniziale di un’organizzazione orizzontale è finito con l’adorare nuovi idoli ergendoli ad eroi infallibili ed insostituibili, tanto da rifiutarsi di riconoscerne evidenti limiti, errori madornali ed ambiguità.

Da lì ad attuare la frase simbolo di Wanna Marchi il passo è breve, persino naturale; lui l’ha fatto forse in maniera palese, eccessivamente roboante perché ha puntato in alto, altri si sono accontentati di molto meno rimanendo in sordina, tutto qua.

Una ferita aperta che diventa repulsione, disillusione, nichilismo, infine urna vuota.

Come invertire la tendenza? E chi dovrebbe farlo?

Non lo so. Forse mia nonna, se fosse ancora viva…