Il meccanismo di Bruxelles la rende impotente di fronte ai sovranismi. Che rapporto vogliamo con la vicina Russia?

L’Ue è costosa, bloccata e illusa su Mosca. La corsa al riarmo non la difenderà

(Massimo Cacciari – lastampa.it) – Un serio esame di coscienza dovrebbe imporsi, i nudi dati lo imporrebbero alla vecchia Europa, non Trump o Putin o Xi Jinping. Il nostro prodotto lordo era nel 1990 il 25% di quello globale e ora siamo al 14%; i settori industriali trainanti, quello dell’auto in primis, si dibattono in una crisi irreversibile; la regressione demografica (oggi l’Ue è il 5% della popolazione mondiale, pur detenendo ancora oltre il 20% della ricchezza personale) è arrestabile soltanto con una strategia complessiva sull’immigrazione, che oggi non solo manca, ma viene contrastata da diversi Paesi. Pensare che ciò derivi da un destino cinico e baro difronte al quale le umane decisioni risultano impotenti sarà anche consolatorio, ma può aiutarci a uscire dalla crisi ancora meno delle volenterose quanto vuote declamazioni su eserciti e guerre. Correre al riarmo potrà servire come aiuto di Stato a industrie precarie, ma non ha nulla a che fare con autentiche strategie di difesa comune e deterrenza.

L’assetto amministrativo e politico dell’Unione costituisce un fattore determinante del suo arretramento economico e produttivo. Ha finito col prevalere uno sciagurato combinato disposto tra ideologie neo-liberiste e centralismo burocratico-tecnocratico. Da un lato, abbandono delle politiche ridistributive, fiscali e finanziarie degli anni dello “Stato sociale”, dall’altro liquidazione del principio di sussidiarietà e centralizzazione delle scelte all’interno degli apparati tecnici degli organi dell’Unione. Organi privi di ogni diretta legittimazione democratica. Così si è giunti a un Parlamento fantasma (e lo stanno diventando anche tutti quelli nazionali), a una Commissione che funge di fatto come Esecutivo, a un Consiglio che decide di non decidere, stante l’assoluta prevalenza del principio di sovranità nazionale almeno in tutti i Paesi entrati nel corso dell’ultimo ventennio.

Si tratta di un meccanismo anchilosato, costosissimo, del tutto inefficiente non soltanto nel collocare le proprie risorse a favore di un’imprenditoria giovane, dinamica, competitiva, ma anche nel rendere convergenti le politiche nazionali in campo sociale e fiscale, nell’eliminare clamorose contraddizioni e disuguaglianze. Un meccanismo impotente nei confronti dei vari “sovranismi” e forte soltanto contro i legittimi interessi dei “corpi intermedi” dell’agricoltura, dell’artigianato, del commercio. Norme, regole, blocchi di ogni genere per quest’ultimi; libertà “senza precauzione” per i grandi gruppi della informazione, delle nuove tecnologie, dell’industria delle armi, della farmaceutica, ecc. È evidente per chiunque non sia in malafede che così l’Unione non può continuare senza liquidarsi come soggetto politico all’interno dei nuovi equilibri internazionali. Resta tutto da vedere se vi siano o possano esprimersi energie in grado di farle cambiare rotta, riaffermando quei principi sui quali essa era pure nata.

Sono sempre le guerre a segnare le crisi più profonde di un organismo politico. Esse possono affondarlo definitivamente come pure creare le condizioni per l’affermarsi di nuove èlites dirigenti. La guerra attuale tra Russia, da un lato, e Ucraina e Nato, dall’altro, rappresenta forse un bivio di questo tipo. L’Europa è costretta a riscoprire la propria vitale relazione con la Russia. Vissuta fino a ieri all’ombra del confronto a tutto campo tra Usa e Russia. Da quell’ombra protettiva l’Europa è uscita. Gli Stati Uniti – almeno quelli di Trump, ma io credo che la svolta sarà irreversibile – hanno dichiarato con assoluta franchezza che il Nemico per loro non è più la Russia, che da quella parte non viene più per loro alcun serio pericolo. Ed hanno ragione, è pura Realpolitik. L’Europa, allora, è chiamata a decidere da sola: che rapporto vuole con la sua metà orientale? Costruire attraverso patti e trattati – tutto quello che è mancato alla fine della Guerra Fredda – una situazione che renda possibili scambi, commerci, intese di ogni tipo, oppure un confronto economico e militare che si arrischia fino a ritenere possibile la stessa Grande Guerra? Chi attualmente governa in Europa – con livelli incredibilmente bassi di consenso, almeno in alcuni Stati chiave – ha il dovere di dire con chiarezza quale strada intenda percorrere. La prima, quella dei trattati, è scritta da tempo. È quella degli accordi di Minsk del 12 febbraio del 2015, sottoscritti da Putin, Poroshenko, Hollande e Merkel, “benedetta” dalla risoluzione del Consiglio di sicurezza dell’Onu di pochi giorni dopo. Cito: l’Ucraina, di cui si riconosce la piena sovranità e integrità territoriale, si impegna «a realizzare una riforma costituzionale che dovrà entrare in vigore alla fine del 2015, che disponga una decentralizzazione, come suo elemento chiave, adottando una legislazione sullo stato speciale delle regioni di Donetsk e Luhansk».

Accordi subito respinti dalla maggioranza che defenestrò Poroshenko, che cambiò sì la Costituzione, ma solo per introdurvi la decisione di entrare nella Nato. Sarà possibile tornare sui termini di Minsk? Ve ne sono di più ragionevoli dopo anni di massacri? Saranno così forti – perché qui davvero ci vuole forza morale e politica, dopo una tale guerra – le leadership ucraine e russe da riconoscere che l’alternativa è soltanto la continuazione dello scontro a “intensità controllata” – oppure una guerra totale, distruttiva per tutta Europa, occidentale e orientale? L’andamento del conflitto può magari aver convinto Putin di poter ottenere molto più di quanto dieci anni fa aveva sottoscritto. E i “Volenterosi” fingere di esser convinti che la Russia può uscire ancora sconfitta, stremata da sanzioni e spese militari.

Sarebbero errori clamorosi, opposti e complementari. Pagati in primis dal popolo ucraino. Ma anche dall’idea stessa di Europa, per la conclamata impotenza a prevenire e impedire guerre al suo interno, per il fallimento della sua dichiarata volontà di rifiutarle come mezzo per la soluzione dei conflitti, per la malafede con cui il suo ceto dirigente copre oggi le debolezze strategiche delle proprie politiche economiche, sociali, di ricerca e sviluppo, e della propria posizione internazionale, sbeffeggiata o quasi dal suo primo alleato, con retoriche chiamate alle armi, e magari sotto il comando tedesco.