Prima di dare il calcio dell’asino agli States, ragioniamo sulle probabili conseguenze della nostra furbizia. E magari diamo il nostro contributo alla pace

Donald Trump e Giorgia Meloni

(di Lucio Caracciolo – repubblica.it) – “In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti. Dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”. La perfida battuta attribuita a Winston Churchill — certo non un ammiratore degli italiani, con qualche eccezione (per esempio Mussolini) — torna in mente leggendo nel rapporto Censis 2025 che il 73,7% degli italiani non considera più gli Stati Uniti un modello di riferimento. Da affiancare al 38,7% per cui le democrazie non sono più adeguate a questo mondo. E soprattutto al 29,7% che apprezza i regimi autocratici.

Riflesso diretto di tanto disamore per l’America, la sensazione che tra i decisori economici e politici nostrani si guardi alla Cina non più quale futuro Numero Uno ma come egemone in carica. Destinato a segnare questo secolo come l’America guidò il Novecento. Per conseguenza, schizziamo Washington e accostiamo a Pechino.

Aveva dunque ragione Ennio Flaiano quando attribuiva agli italiani la vocazione a correre in soccorso del vincitore? Premesso che l’opportunismo è sport praticato alle più varie latitudini, quel che di casa nostra impressiona è la rapidità con cui a ogni variazione atmosferica saltiamo da un carro all’altro. Talvolta fuori tempo. Sicché ci rompiamo l’osso del collo.

L’ultima ondata di simmetrica sinofilia e americanofobia risale all’emergenza Covid. Quando commossi dal profluvio di mascherine cinesi — e dalla parallela missione sanitaria russa, con retrogusto di intelligence — ci scoprimmo improvvisamente innamorati di Pechino (e di Mosca). Sentimento rovesciato appena esaurita la fase acuta del virus.

Spesso ci lamentiamo di essere trascurati dalle potenze “amiche e alleate”. Triplo errore. Primo, perché i lamentosi si autosqualificano in quanto tali, specie in questa «età selvaggia, del ferro e del fuoco», come definita nel citato rapporto Censis curato da Massimiliano Valerii. Secondo, perché per essere presi sul serio nel mercato della politica internazionale bisogna scegliere una posizione, oppure nessuna, se ci si vuole specializzare nell’antica e nobile arte della pirateria, nuovamente di moda. Terzo, perché in politica, giusto il postulato di Lord Palmerston, non esistono amici o nemici eterni. Perpetuo resta solo l’interesse della nazione.

Non entriamo qui nel merito della disputa su chi oggi comandi il mondo. Dibattito abbastanza ozioso, visto che siamo all’alba di una rivoluzione che nasce dalla fine dell’impero globale a stelle e strisce senza che nessuno ne abbia preso il posto.

Interessa invece evocare il pericolo cui l’italica furbizia ci espone. Noi non siamo in grado di difenderci dall’attacco di potenze di qualche peso. Non tanto per deficit di armi e soldati quanto per indisponibilità psicologica e culturale a batterci. Sarà per la disabitudine al conflitto maturata negli ottant’anni di pace guadagnata volendo perdere la guerra mondiale, come diagnosticato nel 1945 da Salvatore Satta. Sarà perché un popolo di mediamente cinquantenni, nel quale le classi sociali che hanno sostenuto il peso delle grandi guerre sono virtualmente scomparse, anche volesse non potrebbe schierare un esercito all’altezza della sfida. Sarà soprattutto perché la morte cerebrale della politica esprime e rafforza l’inclinazione a pensare ciascuno per sé e nessuno per tutti.

Se qualcosa di vero c’è in questa diagnosi, dubitiamo che l’antiamericanismo sia utile all’Italia. Trump può dire quel che vuole, ma l’Italia è militarmente parte del suo schieramento strategico. Le basi Usa, con tanto di bombe atomiche a (teorica) doppia chiave, diventerebbero immediatamente bersagli del nemico. Perciò restano l’unico deterrente di cui disponiamo. Regolato in gran parte da accordi segreti “negoziati” nel dopoguerra fra il vincitore e lo sconfitto. Sarebbe tempo di aggiornarli, non solo nel nostro interesse.

Durante la guerra fredda il potenziale aggressore sovietico era certo — forse sbagliando — che in caso di attacco all’Italia avrebbe dovuto affrontare l’America. Oggi questa certezza, con relativa deterrenza, non c’è più. Anzi. Prima di dare il calcio dell’asino agli States, ragioniamo sulle probabili conseguenze della nostra furbizia. E magari diamo il nostro contributo alla pace, fosse solo per puro egoismo di Belpaese a scarsa vocazione bellica.