Il flashmob davanti a Palazzo Chigi prima dell'arrivo di Zelensky

(di Michele Serra – relupplica.it) – Sei per la pace o sei per la libertà? In un continente che, negli ultimi ottant’anni, ha avuto entrambe, ha goduto di entrambe, la domanda sembra abbastanza bizzarra. Penalizzante, oltre che illogica: da quando pace e libertà sono alternative l’una all’altra? Perché mai dovrei scegliere? Me le tengo tutte e due.

Eppure, con le dovute sfumature intermedie, è proprio questa la domanda che paralizza, soprattutto in Italia, il “che fare” riguardo al futuro dell’Europa: come se difendere la democrazia, con le sue garanzie, fosse un impiccio ideologico sulla strada della pace, e lavorare per la pace, con i suoi compromessi, fosse un cedimento alla doppia e incombente minaccia autocratica che, da Est e da Ovest, dichiara inimicizia e disprezzo per l’Unione.

Quella domanda è ricattatoria. Sottintende che rispondere “libertà” voglia dire alimentare la guerra quasi per un capriccio ideologico, e rispondere “pace” significhi rivelarsi imbelli e svendere al nemico, insieme alle porzioni di Ucraina già addentate, anche la democrazia. Ma il fatto che il campo progressista italiano (o come lo vogliamo chiamare), da quando l’elezione di Trump e i suoi successivi atti politici hanno reso lampante, tranne che ai più ottusi e ai più illusi, la fine dell’atlantismo, non sia in grado di fare dell’Europa e dell’europeismo una bandiera comune; non sia in grado di dire che pace e libertà sono entrambe condizioni costitutive del progetto europeo; non sia in grado di convocare una piazza unitaria; non sia in grado di dire quattro parole in croce che, a nome di tutti, stabiliscano che il sovra-nazionalismo europeista è per sua natura l’alternativa democratica al nazionalismo russo, al nazionalismo americano e al nazionalismo dei sovranisti europei: dimostra che quel ricatto, almeno fino a qui, funziona. È insuperato. Irrisolto. Con l’aggravante, micidiale, che è un ricatto auto-generato dall’opposizione stessa. Nessuno come la sinistra è in grado di sconfiggere la sinistra.

E dire che il dilemma tra riarmo e disarmo è una trappola ideologica da rifiutare ab ovo: l’Europa è già armata fino ai denti, in quella sproporzionata, abnorme quantità distruttiva che è conseguenza del duello atomico tra americani e russi e della Guerra Fredda; ma lo è con armi non sue, irta di missili in massima parte non suoi. Lo è in quanto, militarmente parlando, ex territorio d’oltremare degli Stati Uniti d’America. Beh, non è più così, e anzi è stato così ben oltre il necessario, fuori tempo massimo, nel senso che appare perfino comprensibile che l’America, ottant’anni dopo la Seconda Guerra e trentacinque dopo la caduta del Muro, non voglia più pagare l’ombrello atomico per noi europei. Mettersi nei panni degli altri è sempre la più difficile delle operazioni: ma voi paghereste per generazioni la tranquillità e la sicurezza di altri popoli?

Quanto tempo deve ancora passare prima che non solamente i governanti europei, anche le forze politiche e le opinioni pubbliche dei diversi Paesi ne prendano atto e comincino a discutere seriamente, operativamente sul da farsi? Perché, per esempio, i nipotini di quelli che volevano buttare a mare le basi americane non capiscono che questo, finalmente, è il momento, e che per farlo non serve “riarmo”, serve una difesa comune che sarebbe, probabilmente, meno costosa di quanto i singoli Stati già spendono oggi, adesso, ora, secondo la regola del massimo sforzo e minimo rendimento?

Al governo siedono tre partiti che, sulla politica internazionale, sono ben più divisi di quelli all’opposizione. Grosso modo: un terzo (Meloni e i suoi) è con Trump, un terzo (Salvini e i suoi) con Putin, solo un terzo, Forza Italia, si professa europeista. Ma il potere, evidentemente, è un collante formidabile, e la destra non sembra versata per l’introspezione. Si accontenta di vivere e possibilmente di comandare. Ed ecco il miracolo di un campo governativo che in caso di guerra non saprebbe che pesci pigliare, ma si guarda bene dal dirlo, perché dicendolo si dissolverebbe in un lampo, Salvini con il colbacco, Meloni con il cappello da cowboy e Tajani che bussa a Strasburgo sperando che gli aprano; e un’opposizione che anche tacendo resta divisa su un tema, quello del futuro europeo, che è con tutta probabilità il più importante non solo per le nuove generazioni, anche per quelle oggi sulla scena. Noi, insomma.

Parecchi lettori e anche qualche esponente politico mi ha scritto, in queste ore: perché non proviamo a replicare la manifestazione europeista del 15 marzo scorso a Roma, nella quale pace e libertà erano fianco a fianco, e fu un successo nonostante la sua composizione molto plurale (o forse: proprio per la sua composizione molto plurale, da Calenda a Fratoianni)? La risposta è semplice: perché tocca alla politica, oggi più di ieri, organizzarla. Come fu evidente allora, e ancora più evidente oggi, l’opinione pubblica europeista esiste, esistono gli europei (che sono un passo avanti rispetto agli europeisti: sono l’applicazione pratica dell’idea di Europa Unita). Ma la loro rappresentanza politica, a livello di massa (il solo che conta, che pesa, che cambia il corso delle cose) non è ancora riuscita a mettere insieme pace e libertà in modo che siano la stessa speranza e lo stesso progetto.