Il silenzio delle armi dice più delle negoziazioni

(Giuseppe Gagliano – lafionda.org) – A Ginevra, nelle sale illuminate da luci neutre e immerse nella ritualità diplomatica, le delegazioni occidentali e ucraine si sfidano attorno a progetti di pace rivisti, corretti, respinti e riscritti. Ma mentre il teatro diplomatico va in scena, la verità decisiva si esprime altrove, là dove i mezzi corazzati scavano il terreno e dove le mappe cambiano ogni settimana. Sono le linee del fronte, e non le dichiarazioni politiche, a fissare già oggi i termini della pace che verrà: il campo di battaglia scriverà la pace. Ed è questo scarto, tra il linguaggio del terreno e quello delle cancellerie, a rivelare tutta la profondità della crisi europea.

Un fronte che avanza mentre l’Europa distoglie lo sguardo

Le ultime settimane hanno messo in evidenza una realtà che molti preferiscono ignorare. Diverse città considerate essenziali per la stabilità delle difese ucraina sono cadute o sono ormai accerchiate. A nord, la spinta russa attorno a Kupyansk apre due possibili sacche che minacciano migliaia di soldati ucraini. A est, le forze russe sono penetrate in varie località che Kiev presentava come bastioni. A sud, l’avanzata verso Zaporizhzhia si è riattivata con un’intensità inattesa, approfittando di trincee insufficienti e di linee logistiche ormai esauste.

Il silenzio mediatico che accompagna questi sviluppi è rivelatore. Quando nessuno parla del campo di battaglia, significa spesso che la situazione evolve in una direzione difficile da accettare. Quel silenzio è il sintomo più evidente del collasso della narrativa occidentale sull’equilibrio strategico. E chi siede oggi ai tavoli negoziali lo fa da posizioni sempre più lontane dalla realtà militare.

L’avanzata russa come strumento di negoziazione

L’accelerazione russa non ha nulla di fortuito. È strettamente legata ai negoziati in corso. Più il fronte avanza, più la Russia accumula “fatti compiuti” che diventeranno la base di qualsiasi accordo futuro. Il concetto centrale è semplice: la linea di controllo nel giorno dell’armistizio. Mosca lo conosce da decenni. Washington ha imparato a conviverci. Kiev tenta disperatamente di evitarlo.

Per questo gli assalti si moltiplicano, le pressioni convergono verso Zaporizhzhia e il Donbass torna a essere un labirinto di corridoi esposti. Sul campo, la Russia vuole entrare nella trattativa come potenza che ha imposto la propria lettura dei fatti, non come attore costretto a compromessi astratti.

Un esercito ucraino vicino all’esaurimento

Kiev oggi combatte non soltanto contro una potenza superiore, ma anche contro un declino logistico profondo. Gli attacchi russi contro le locomotive hanno paralizzato la distribuzione delle munizioni. Le trincee mancano in varie zone chiave. Le rotazioni dei reparti diventano rare. Le armi occidentali arrivano col contagocce. E soprattutto cresce tra i soldati una domanda: cosa difendiamo ancora, se le posizioni cedono e gli arsenali si svuotano?

La convinzione morale non basta più. L’esercito ucraino ha bisogno di un sistema di sostegno che non possiede più. E questa fragilità militare si riflette immediatamente in fragilità politica.

Gli Stati Uniti preparano l’uscita, non il rilancio

Il piano statunitense ha introdotto un cambiamento di linea. Prevede neutralità per l’Ucraina, limitazioni sulle future alleanze, una riduzione drastica delle forze armate e concessioni territoriali fondate sulla situazione del fronte. La logica è chiara: chiudere il conflitto, non prolungarlo. Washington vuole liberare risorse per la competizione strategica con la Cina, riaprire canali di dialogo con Mosca su dossier globali e porre fine a una guerra che, per gli Stati Uniti, è diventata più un ostacolo che un vantaggio.

L’Ucraina, in questa visione, non è un tema esistenziale. Lo è invece per la Russia, e questa asimmetria spiega il nuovo equilibrio diplomatico.

Un’Europa spettatrice, non protagonista

L’Europa appare paralizzata. Da un lato, capitali che evocano una possibile guerra diretta con la Russia. Dall’altro, paesi che non dispiegheranno alcun soldato e che vedono nella continuazione del conflitto una minaccia mortale per economie già indebolite dal costo dell’energia. La frattura è totale. E soprattutto l’Unione Europea non ha alcun ruolo reale nelle negoziazioni. I suoi documenti vengono ignorati. Le sue prese di posizione non spostano nulla. L’Europa non è al tavolo: l’Europa è sul tavolo.

E quando una regione divisa, indebolita e lenta non può influenzare la diplomazia, la pace si decide altrove.

Verso una nuova ripartizione delle zone d’influenza?

Tra Washington e Mosca si delinea un accordo che va molto oltre la questione ucraina. Ciò che sta prendendo forma potrebbe essere una nuova ripartizione delle sfere di influenza, una sorta di Yalta aggiornata. L’Ucraina sarebbe solo il primo capitolo, non l’ultimo. L’Europa, politicamente e militarmente indebolita, rischia di tornare a essere terra di mezzo tra due grandi potenze. Ciò che non è riuscita a diventare — una potenza autonoma — la trasforma oggi in un oggetto geopolitico.

La pace nascerà dal terreno, non dai comunicati

La conclusione è amara ma inevitabile. Le negoziazioni non stanno scrivendo la fine della guerra. La stanno registrando. È il campo di battaglia ad aver parlato. E la pace — qualunque ne sarà la forma — sarà la traduzione diplomatica di ciò che gli eserciti hanno già deciso.

La guerra non finisce nelle conferenze stampa. Finisce là dove si combatte. E oggi questa verità è più visibile che mai.