La premier Giorgia Meloni

(Massimo Giannini – repubblica.it) – Cambiare la legge elettorale, invece di rafforzare la legge di bilancio, non migliorerà la vita degli italiani. Abolire i collegi uninominali, invece di far crescere i salari reali, non spingerà più gente a votare. Allo stesso modo forzare sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, invece di ridurre la pressione fiscale sul contribuente onesto, non contrasterà la disuguaglianza e la rabbia sociale. Sottrarre al Capo dello Stato la discrezionalità nello scioglimento delle Camere, invece di aumentare la qualità degli eletti, non servirà a garantire governi più stabili, a stimolare la crescita del Pil, a rendere le città più sicure. Eppure, la prima reazione di Meloni e dei suoi arditi alla battuta d’arresto delle elezioni regionali è stata esattamente questa. Non un colpo d’ala sui grandi temi che stanno a cuore a tutti i cittadini: l’economia che ristagna, la micro-criminalità che dilaga. Al contrario, un colpo d’acceleratore sulle pseudo-riforme che stanno a cuore solo ai patrioti al comando: il premierato e il sistema di voto. Il doppio e immediato rilancio su “priorità” così lontane dai bisogni quotidiani del Paese, e invece così vicine ai sogni di potere del Palazzo, conferma al di là di ogni truce sparata propagandistica le preoccupazioni della Sorella d’Italia. L’arretramento della Fiamma tricolore è stato significativo: ha fallito miseramente l’Opa sul Veneto, dove la Lega a trazione Zaia ha umiliato sia Meloni che Salvini, e ha perso copiosi consensi in Campania e Puglia, dove è stata schiantata dal Pd di Elly Schlein. Non è stato certo il “provvidenziale scossone” dolosamente attribuito dai soliti gazzettieri di regime a un consigliere di Sergio Mattarella. Ma l’allarme è suonato chiaro e forte, nelle stanze del governo. Bisogna fare qualcosa: non per governare meglio l’Italia, ma per far governare più a lungo Fratelli d’Italia.

Riaffiora un vizio quasi genetico delle destre berlusconiane e post-berlusconiane (mutuato in parte anche dalle sinistre renziane). Le regole del gioco vanno bene finché si vince: appena si fiuta il pericolo di una sconfitta possibile, allora vanno cambiate in corsa, facendo saltare il tavolo a botte di maggioranza. È la Storia della Seconda Repubblica, svilita dall’uso politico delle norme costituzionali e dall’abuso partitico delle riforme istituzionali. Per quanto sfibrata, in nessun’altra democrazia europea le leggi elettorali sono state riscritte più volte come da noi. Sempre con un solo obiettivo: non quello di assicurare più efficienza al dispositivo di voto e più efficacia al principio della rappresentanza, ma quello di impedire la vittoria dell’avversario. Dopo il Mattarellum del 1993 — con il quale scegliemmo il maggioritario, indignati da Tangentopoli — ci illudemmo di aver introiettato la cultura del bipolarismo. Ma nel 2005 a riportarci nel caos ci pensò il Cavaliere col Porcellum, fritto misto indigeribile cucinato a Lorenzago col solo scopo di farlo vomitare dall’Unione di Prodi, che infatti vinse a stento e crollò dopo due anni. Nel 2013 la Corte costituzionale giudicò illegittima quella “porcata” e subito dopo Renzi, allora royal baby di rito Nazareno, provò a metterci una pezza con l’Italicum, a sua volta tagliato a misura sul suo “regno”. Due anni dopo la Consulta bocciò anche quello, e così nel 2017 siamo approdati all’attuale Rosatellum, che fa eleggere due terzi del Parlamento col proporzionale e un terzo col maggioritario.

Questo ennesimo Frankenstein elettorale, frutto di trapianti innaturali e innesti parziali, ha consentito a Meloni di stravincere nel 2022: col 43% dei voti, si portò a casa l’82% dei collegi uninominali alla Camera, beneficiando della frammentazione/ cannibalizzazione del centrosinistra. Non solo: per quanto pasticciato, il Rosatellum le ha permesso di smerciare i suoi dsuccessi” all’orbe terracqueo, rivendicando con iattanza e tracotanza “la stabilità e la longevità” del suo governo. Ma con le ultime regionali l’incantesimo si è rotto. Pd, 5S, Avs e Casa Riformista si sono coalizzati, e le simulazioni dell’Istituto Cattaneo dimostrano che, trasferendo su scala nazionale i risultati del voto locale, la rimonta del centrosinistra nei collegi sarebbe clamorosa, azzerando il vantaggio delle destre al Sud. FdI, Lega e Fi dovrebbero scordarsi il “cappotto” di tre anni e mezzo fa, quando conquistarono 121 collegi su 147: si ritroverebbero cucito addosso un “vestitino” striminzito, inadatto per rivincere e buono tutt’al più per pareggiare. Adesso, nei collegi uninominali, la paura fa meno di 90: ecco perché, prima delle politiche del 2027, urge un altro rimaneggiamento della legge elettorale. Serve un bel Melonellum, che lasci a Giorgia quel che è di Giorgia, o tolga a Elly quello che potrebbe diventare di Elly. Chiusa la baita del Cadore, congedata la coppia Calderoli & Tremonti, dallo sgangherato pensatoio di Via della Scrofa i nuovi Stranamore Fazzolari & Donzelli annunciano l’abolizione dei temuti collegi, e un sistema proporzionale con un premio di maggioranza del 55% per il partito o la coalizione che raggiunga almeno il 40-45%. L’ennesimo patchwork, ma coerente con la parallela riforma su cui ora bisogna serrare i ranghi, cioè l’elezione diretta del presidente del Consiglio il cui nome andrà tassativamente indicato sulla scheda.

Questa, adesso, è la road-map del melonismo da combattimento. Con la virile fedeltà e la proverbiale “terzietà” che lo contraddistinguono, Ignazio La Russa ha dato la sua benedizione: per approvare il premierato “c’è tempo”, ha dichiarato la sedicente seconda carica dello Stato, precisando che è solo questione di “volontà politica”. Il che è come dire: anche sulle regole del gioco democratico non esistono spirito bipartisan, grazia di Stato, primato del Parlamento. Come sulla “riforma della giustizia” e la separazione delle carriere tra giudici e pm: se c’è una maggioranza che decide, faccia pure. Nessuno la fermerà. Per questo, se le regionali hanno suonato il campanello d’allarme a destra, devono suonare anche la sveglia a sinistra. È finita la stagione dei sofismi, dei personalismi e degli sconfittismi: se il governo è tornato contendibile, urgono qui ed ora un programma serio e una squadra coesa che lo rendano davvero raggiungibile. E come ha detto Renzi su questo giornale, stavolta giustamente, la sfida si giocherà sulla quotidianità più che sull’ideologia, sul carrello della spesa più che sul calcolo dei seggi.

A due anni dal voto, come nella migliore tradizione italica, si profila un’altra legge elettorale ad destram, combinata a una riforma costituzionale ad personam. Sta all’opposizione proporsi al Paese come alternativa radicale a questa deriva illiberale. È evidente che il premierato calza a sua volta a pennello alla Meloni: se passasse quello sbrego alla Costituzione, lei diventerebbe la domina assoluta della Nazione. Se non passasse, sarebbe pronta a fare la presidente della Repubblica nel 2029. Comunque andasse, passeremmo da democrazia a capocrazia. Da Colle Oppio al Colle Quirinale: per l’Underdog sarebbe un salto epocale, per l’Italia un salto nel buio.