(Giulio Di Donato – lafionda.org) – I più recenti appuntamenti elettorali ci consegnano l’immagine di una dialettica politica ingessata tra eterno ritorno del bipolarismo tradizionale e astensionismo radicale: segno, quest’ultimo, di una secessione di massa dai canali di una post-democrazia senza popolo, priva di propulsione ideale, le cui formule rinsecchite sembrano sempre più riguardare solo i circoli dei ben integrati, le varie tipologie di “aiutantato”, i paladini di single issue single leader, e gli ambienti più ideologizzati. A contrastare l’assuefazione a questo scivolamento si accendono, di tanto in tanto, fiammate improvvise di energia politica, che tuttavia si spengono altrettanto rapidamente.

È lo stesso copione che, fatta salva la parentesi “populista” degli anni intorno al 2018, ha segnato la vita pubblica del nostro Paese negli ultimi decenni: la contesa propagandistica tra un moderatismo di ispirazione liberal-conservatrice e uno di matrice liberal-progressista. Rimane invece sottotraccia una posizione politico-culturale terza (ma non centrista), capace di sottrarsi al riflesso condizionato delle polarizzazioni farlocche, per scavare in profondità e volare alto, producendo elementi di forte novità: volti, parole d’ordine, linguaggi, pratiche e frontiere antagoniste nuove, a cavallo tra politica, prepolitica e metapolitica. Perché, se si vuole riempire il vuoto profondo di significati, orientamenti e appartenenze del nostro tempo, bisogna condurre una rivoluzione che è insieme politica e spirituale.

Questa opzione diversa e autonoma dovrebbe costruire la propria proposta sul terreno dell’interesse nazionale, in alternativa sia alle forze del vincolo esterno assoluto, sia a quelle del vincolo interno piccolo-piccolo. Un interesse che il governo Meloni proclama, ma che nei fatti appare ristretto, privo di visione e respiro (nel nome del made in italietta); e che l’opposizione di centrosinistra fatica ad assumere fino in fondo (basti pensare alla costante richiesta di superare la “regola dell’unanimità” in sede di Consiglio dell’UE, sulla base di un europeismo cieco e fideistico). Entrambe le parti appaiono ugualmente incapaci di agire con ingegnosità ai margini della disarticolazione degli equilibri consolidatisi nel tempo, là dove potrebbero nascere nuove e più promettenti configurazioni geopolitiche e geoeconomiche. Occorrerebbe invece saper sfruttare fino in fondo questa fase di smottamento, operando con intelligenza e profondità di visione nelle crepe che si sono aperte tra le due sponde dell’Atlantico, per riaffermare una strategia politica saggiamente autonoma.

Si può sostenere questo, filosofeggiando un poco: nell’ambito del centrodestra prevale la logica del concreto e del particolare (sotto forma di provincialismo ristretto e corporativo), mentre tra le forze della sinistra neoprogressista resta ben radicata la logica dell’astratto e dell’indifferenziato, di matrice liberal-globalista (in veste di schematismo ideologico in assenza di ideologia e di aristocraticismo perbenista). Entrambe piantate nelle retroguardie e in un rapporto specularmente distorto e unilaterale con il reale (l’una vi aderisce in modo statico e irriflesso, l’altra, nelle sue punte estreme, tende a dissolverlo in quanto prodotto di una costruzione artificiale), quando ciò che serve, invece, è un salto di paradigma politico-culturale in avanti, scompaginante, ostile tanto all’arroganza dell’universale astratto e indifferenziato quanto al ripiegamento asfittico del particolare concreto, nel nome di un’idea di universale concreto compatibile con una prospettiva di riscatto nazionale-popolare. Un progetto fondato su tre parole: pacegiustizia socialesovranità democratica. Contro il sistema della guerra e contro la logica dell’allerta permanente, cui si ricorre dall’alto per rinsaldare fittiziamente una società sempre più sfibrata, frammentata e inerte.

Socialepopolaredemocratica: sono queste le parole cui occorre riferirsi per declinare i temi che più infiammano il discorso pubblico. A partire da tali premesse si può, ad esempio, parlare di immigrazione nel nome della sostenibilità interna e della solidarietà internazionale; e si possono respingere tanto la logica emergenzialista e tecnocratica del “fate presto” quanto la logica apocalittica del “vade retro”, con la quale vengono spesso assunte formule come “transizione ecologica e digitale”, da rileggere invece criticamente per disvelarne le ambivalenze e i tratti di fanatismo, onde evitare una transizione regressiva nel segno dell’impoverimento generalizzato, piuttosto che verso una stagione di progresso materiale e spirituale ampio e diffuso.

Umanesimo è la prospettiva con cui affrontare le nuove istanze di libertà individuale, da sottrarre alle logiche della mercificazione e del nichilismo individualista, immaginando un orizzonte di esaltazione della dignità e di fioritura integrale di libertà oltre il paradigma dell’homo oeconomicus e dell’homo narcissus, di legami comunitari oltre la dimensione del pulviscolo atomistico e, infine, di protagonismo popolare oltre la strategia della mobilitazione passiva.

Realismo critico, invece, è l’ispirazione con cui guardare la scena delle relazioni internazionali: mentre la politica estera statunitense, da sempre oscillante tra isolazionismo imperiale e interventismo globale, sembra attualmente assestarsi, pur tra mille contraddizioni e incertezze, sull’asse “Dottrina Monroe 2.0 / equilibrio competitivo di potenza / politiche di contenimento verso la Cina”, l’iniziativa politica italiana ed europea, ristretta a un nucleo di “nazioni apparentate”, dovrebbe svolgere una funzione di mediazione tra aree geopolitiche diverse, promuovendo condizioni e ragioni di cooperazione piuttosto che di conflitto. Si tratterebbe, cioè, di puntellare con elementi di pace e giustizia una situazione di equilibrio multipolare di potenza, a sostegno di un ordine internazionale di carattere necessariamente pluralistico e policentrico.

Il problema, va ricordato, è che l’Unione europea è stata congegnata proprio perché le fosse impossibile sviluppare una soggettività politica autonoma, oltre che per deprimere il protagonismo e la vitalità dei singoli Stati membri. Nella stagione del ritorno del “lato duro” della geopolitica e del tramonto di un modello di cosmopoli irenica e post-sovrana, basato sul nesso tra globalismo (in forme più o meno alter) e fuga giuridico-moralistica dal politico, l’UE è chiamata a ridefinire i presupposti di fondo del suo processo di integrazione. Di un tale ravvedimento, tuttavia, non c’è traccia nelle classi dirigenti europee. Anzi, si intende procedere verso un ulteriore allargamento oltre il numero già elevato dei 27 Paesi membri. Eppure non dovrebbe sfuggire, se solo non mancasse senso storico-dialettico, che ciò che si guadagna in larghezza ed estensione si perde in intensità e profondità, ovvero in consapevolezza della propria identità, dei propri scopi e dei propri interessi. Oggi, invocare “più Europa” significa, di fatto, invocare più armi, più “pilota automatico” liberal-tecnocratico, più emergenzialismo (ora bellicista).

Gravi e impegnative sono, insomma, le sfide che abbiamo dinanzi: sfide nuove che richiedono sintesi nuove, contaminazioni inedite tra tradizioni di pensiero differenti. Si pensi, ad esempio, alla necessità di un incontro di tipo nuovo tra la tradizione laica di ispirazione neosocialista e i “potenziali di senso” custoditi dalle grandi religioni (qui in Europa, in particolare, da quella cristiana) per cercare ancora una più alta forma di vita in comune oltre i confini del liberal-capitalismo, contro la “subcultura dello scarto”, la “furia del dileguare” nichilistica e quella, rigidamente catecontica, del trattenimento sterile.